Il Tirreno

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Storie di vini

Magie isolane, il Giglio è sempre più terra da vite: crescono etichette e produttori

di Antonio Paolini (*)
Vigneti sull’isola vista mare
Vigneti sull’isola vista mare

L’Ansonica come vitigno “re” ma sull’isola si lavora sempre meglio e la produzione è in aumento

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È più che vero: un apripista, una lampada che illumini l’insegna specie in luoghi meno attesi, fa sempre comodo e aiuta un bel po’. Ma se nessuno si muove poi nel cono di luce, rimane lui, l’anticipatore, coi suoi meriti indiscussi, e nulla più. Non è questo il caso, per fortuna di chi vi opera e di chi, a ragione, ne apprezza sempre più i risultati, dell’isola del Giglio, intesa non come splendida meta turistica (lì i fari servono giusto per l’approdo barche) ma come terra da vino. Il “suo” vino, la “sua” uva, l’Ansonica, che il “faro” Bibi Graetz, infanzia gigliese rivendicata, “savoir faire” assunti e rilanciati, ha tradotto in bianchi che, affiancati ai rossi sfornati nella casa madre fiesolana, hanno alimentato e alimentano la sua saga di produttore visionario e straordinario. Ma nell’isola chi è rimasto a coltivarne le uve senza allargare altrove business e orizzonti, lavora sempre meglio. E sono sempre più a farlo. Come ha raccontato qualche settimana fa (ne abbiamo già parlato, ma ad altro proposito) la kermesse lucchese dedicata ai vini delle coste toscane. Ai gioiellini gigliesi in particolare è stato riservato un defilé divertente quanto probante. Con proposte legate ovviamente dal filo bianco della varietà regina, e in buona parte anche da un modo di proporsi che valorizza l’ancestralità del contesto ma anche la contemporaneità degli esiti, ribadita anche nella veste e le etichette.

Ecco allora, in ordine sparso e non di valore, la grafica azzurro mare dello Strullli, Ansonaco baby (2024) targato, omen nomen, Parasole, firmato da una figlia d’arte, Milena Danei, tiratura misurata, sentori marini mixati a quelli da fermentazione spontanea e macerazione (pochi giorni) sulle bucce. Poi l’oro concentrico attorno al profilo dell’isola (da cui la Tenuta produttrice prende il nome) dello Scoglio Nero, misto ragionato di lavoro in acciaio, legni usati e gres per un risultato complesso (e più maturo del “paisano” già citato) sostenuto anch’esso da macerazione e con esiti tannici che lo fanno vino da pasto e non da solo repertorio ittico. E per finire altri due “ragazzini” (’24 entrambi): il Capperosso, vanto di casa Fontuccia e di Giovanni e Simone Rossi, i titolari, già decorato da importanti allori, certificazione orgogliosa in etichetta (“100% uve della nostra isola”), lieviti anche qui indigeni ma con evidente ricerca di freschezza e ambizione palese anche nel prezzo; e infine l’Altura, che affida iconograficamente la sua uva alle ali d’un gabbiano, è figlio di un’azienda pioniera (start nel 1999), la famiglia Carfagna a tenerne le fila e un bianco che (citiamo chi lo fa) “si comporta come un rosso”: ha cioè sostanza e propensione a crescere nel tempo, senza fretta o paura, con fermentazione anche qui sulle bucce e procedure di cantina “antiche” quanto le terrazze affacciate sul mare ove vengono allevate le sue uve. 

(*) Giornalista e critico enogastronomico 

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