Il Tirreno

La nostra storia

“Il sovversivo”, ecco come eravamo: compie 50 anni il libro sulla morte di Franco Serantini

di Libero Red Dolce
Il funerale di Franco Serantini (foto dalla Biblioteca Serantini)
Il funerale di Franco Serantini (foto dalla Biblioteca Serantini)

Il testo di Corrado Stajano racconta l’agonia del giovane anarchico pisano picchiato dalla polizia e morto in carcere

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Il sovversivo, il libro di Corrado Stajano, compie 50 anni. Fare i giornalisti senza essere la notizia. O senza oscurarla con il proprio volto. Sta qua, a 50 anni dalla sua uscita, la prima e decisiva lezione per chi produce o consuma informazione che arriva dal libro “Il sovversivo” di Corrado Stajano. Una questione di postura: per i fatti, non sopra i fatti. Un longseller da oltre 600mila copie pubblicato nel 1975, che ricostruisce la vicenda di Franco Serantini, orfano sardo cresciuto in solitudine, morto a vent’anni a Pisa dopo essere stato brutalmente picchiato dalla polizia durante una manifestazione. Ferito gravemente, morì in carcere il 7 maggio 1972, senza cure né giustizia.

Se a qualcosa servono gli anniversari forse è a indagare la distanza tra il “com’eravamo” e il “come siamo”, cercando costanti e buone pratiche intorpidite dal tempo. Stajano scrive il libro a 35 anni, nell’Italia agitata dalle rivendicazioni di lavoratori e studenti, dalla repressione delle forze dell’ordine e dalle coperture istituzionali. Spesso più mandanti che complici. Milanese di nascita, Stajano insieme a Camilla Cederna, Ermanno Rea, Marco Nozza e pochi altri fa parte idealmente di un gruppo di giornalisti democratici impegnati a indagare fatti controversi e versioni ufficiali. Andare sui luoghi, ascoltare testimoni, porre domande.

La ricezione del libro

Nel febbraio 1975 Einaudi pubblica “Il sovversivo”. La vicenda dell’orfano ucciso senza colpa aveva colpito l’immaginario. Il libro arriva quando il processo è in stallo, le responsabilità coperte, malgrado la lotta per la verità di anarchici e sinistra. «Uno dei pochi atti di giustizia tributati ai vent’anni di Franco è un libretto di Corrado Stajano», scrive il “Quotidiano dei lavoratori” l’8 febbraio. Un faro si è acceso.

Dieci giorni dopo è Giorgio Bocca a scrivere un pezzo ammirato (ci tornerà sopra un paio di mesi dopo sull’Espresso, usandolo per bacchettare l’opposizione ufficiale di sinistra ed elogiare la ribellione dei giovani). Di Stajano dice che ha «il senso dell’ironia tragica, che è molto diverso dal cinismo e dall’irrisione volgare»; aggiunge che «i sorrisi di Stajano tagliano il racconto, ne sottolineano l’essenzialità». La medaglia più significativa arriva qualche paragrafo dopo: non è un resoconto di parte o un manifesto politico. «È dalla prima all’ultima pagina un libro di storia, dentro c’è l’Italia degli ultimi dieci anni». Coglie un punto decisivo nel lavoro giornalistico di Stajano. La cronaca aderente ai fatti è l’abc. Va sostenuta però con la conoscenza delle forze che si agitano in campo, contestualizzando le vicende e i personaggi nei rapporti gravitazionali che li avvicinano e respingono. Aderenza alla storia, insomma. Recensioni appaiono in serie su Epoca, Paese Sera, il Corriere della Sera e altri. E la vicenda giudiziaria torna sui giornali, si parla di pestaggio della polizia e vengono raccontate le testimonianze di alcuni poliziotti al processo.

Lo stile di Stajano

Otto mesi di lavoro sui passi di Serantini. Stajano parte dalla casa adottiva in Sicilia al brefotrofio sardo, dall’arrivo a Pisa all’istituto di rieducazione, fino alla militanza extraparlamentare, la manifestazione, il carcere, l’obitorio. Una storia «talmente disperata da sembrare ai limiti dell’invenzione», dirà Stajano. La sua preoccupazione? «Far capire che non era un romanzo. Tutti i fatti erano veri, documentati».

Lascia la parola ai protagonisti. Procede per flashback. Minimalista, aderente alle fonti, interviene solo per collegare o fare luce su passaggi oscuri. Come quando scrive dell’agonia in carcere del ragazzo: «Gli unici a capire la gravità del male di Franco sono gli scopini, che vanno e vengono nei corridoi, ma nessuno li ascolta». Con lingua essenziale, ecco il carcere come luogo di solitudini e abbandono. L’incipit è quasi realista: si annuncia il fatto – «il posto dove fu colpito a morte è…» – poi una descrizione sobria dell’ambiente: «Una ininterrotta serie di piccole botteghe che forse esistono da secoli». I luoghi non fanno da semplice sfondo, ma sono cosa viva.

Il ritorno

“Il sovversivo” è diventato riferimento per un’idea di giornalismo e inchiesta. Il ricordo di «quel ragazzo dagli occhiali spessi», come scrisse Paolo Finzi, direttore di A-Rivista Anarchica: «È stato quel libro la ricerca appassionata e rigorosa di Stajano a strapparlo dall’anonimato». Nel 2002, su concessione dell’editore, fu ristampato da Bfs, casa editrice della Biblioteca Franco Serantini, che dal 1979 ne conserva la memoria.

Molti salutarono il ritorno del libro, associandolo alla morte di Carlo Giuliani durante il G8 di Genova. «Franco ieri come oggi Carlo», scrive Liberazione. Stajano, tornato a presentare il volume, non approva il paragone. «La storia cammina. Sono mutate le condizioni. Troppe differenze tra Franco, venuto dal nulla, e Giuliani, che aveva comunque una famiglia alle spalle», ammonisce sulle pagine del Tirreno.

Da Aldovrandi a Cucchi

La lucidità di uno scrittore esemplare e misurato. E nell’occasione forse modesto nel riconoscere il lascito del suo lavoro. Da Aldrovandi a Cucchi, dai pestaggi a Santa Maria Capua Vetere a quelli della caserma di Aulla: cambiano tempi e condizioni, ma la repressione del dissenso e il sopruso verso gli ultimi è una contraddizione costante che si ripropone in democrazia. Stajano l’ha reso evidente raccontando del sovversivo Serantini. «Non bisogna lasciarsi vincere dall’emozione, è necessario razionalizzare i fatti, seguitare a rendere la nostra testimonianza politica e continuare la lotta». Il 25 aprile del’75 affidò queste parole alla rivista Libri Nuovi, illustrando la speranza, poi frustrata dalla storia, che lo aveva portato a occuparsi della vicenda: «Non vogliamo più essere costretti a scrivere libri come “Il sovversivo”».

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