Gli 80 anni di Massimo Moratti: «Mi aspetto due regali dall’Inter». Il suo amore per la Versilia e un livornese come esempio
Il presidentissimo guarderà la finale da casa: «Può vincere Champions e scudetto». I più forti di oggi Lautaro, Thuram, Acerbi e Barella. «Ma come Ronaldo nessuno»
Ottant’anni di storia d’Italia vissuta tra industria e sport con un occhio sempre attento alle questioni sociali e con un’innata generosità, un garbo e una cortesia che lo hanno portato a sbagliare in più di una circostanza, ma sempre in buona fede e assumendosi le responsabilità in prima persona. La storia di Massimo Moratti assomiglia a una saga familiare che si snoda lungo il solco del nonno Albino, farmacista bergamasco di fine ’800 e prosegue negli anni Cinquanta con il padre, Angelo, un self made man che con il petrolio costruì un impero industriale e si appassionò al calcio costruendo la Grande Inter regina d’Europa e del Mondo negli anni Sessanta grazie ai suoi leggendari campioni (Mazzola, Suarez, Corso, Facchetti, Burgnich, Picchi).
Lui, quinto dei sei figli, seguendo la scia paterna è diventato il presidente più vincente nella storia della Beneamata con 16 trofei conquistati sui 39 complessivi vinti dalla squadra nerazzurra nei 18 anni vissuti da patron dell’Internazionale. Oggi che la Saras, il gioiello di famiglia e simbolo del petrolio italiano è stata ceduta alla multinazionale olandese Vitol, e che dell’Inter, adesso di proprietà del fondo statunitense Oaktree, è rimasto il primo grande tifoso, Massimo Moratti si volta indietro per riavvolgere il nastro di una vita piena, unica ed entusiasmante.
Presidente, non è uno scherzo: oggi compie 80 anni.
«Il tempo è volato. Guardi, niente fuochi d’artificio o grandi ricevimenti. Li festeggio in famiglia con grande semplicità: assieme a mia moglie Milly Bossi, vivace e sorprendente come il primo giorno, le sorelle, i figli e i nipoti. E mi piacerebbe che accanto a me ci fossero tre persone care che non ci sono più».
A chi si riferisce?
«A don Ermanno Pascotto, bravissimo insegnante al ginnasio Leone XIII di Milano che mi ha dato una solida formazione umanistica, a Gino Strada, il fondatore di Emergency, un mio amico perfetto, di una concretezza e una generosità assoluta che aveva come unico obiettivo l’aiuto alle persone e ai bambini a prescindere dal Paese di provenienza e al colore della pelle e al giurista Guido Rossi, ex presidente Consob e Telecom Italia, un uomo colto e divertente con cui era piacevole passare il tempo. Quando la sera ci incontravamo a cena c’era sempre qualcosa da imparare sulla situazione sociale e politica in Italia».
Quindici anni fa la gioia del Triplete culminata con la vittoria in Champions al Santiago Bernabeu. Dalla Beneamata si attende quel tipo di regalo per gli 80 anni?
«Non sarò a Monaco, ma vedrò la partita sul divano di casa in compagnia di uno dei miei figli. Tifare Inter significa convivere col rischio infarto. Mi è capitato nella semifinale di ritorno contro il Barcellona che ha portato la squadra alla seconda finale in tre anni. Sono sincero: non solo credo che alzeremo la Coppa dalle Grandi Orecchie, ma possiamo ancora vincere lo scudetto. Per aver battuto il Bayern e i catalani, due formazioni stellari, ci meritiamo la Champions. Il calciatore simbolo di questa Inter? Nessun dubbio, Lautaro Martinez. È il capitano ideale. Si mette davanti alla squadra, soffrendo e stringendo i denti quando è necessario. Ma sono stati bravi tutti da Thuram ad Acerbi, che incarna l’autentica anima interista capace di non mollare neanche quando tutto sembra perduto».
C’è un giocatore tra i nerazzurri di oggi che incarna lo spirito della sua Inter?
«Barella. È migliorato tantissimo. Un calciatore che ti coglie di sorpresa, salta l’uomo, combatte, è pericoloso in attacco e aiuta in fase difensiva. Per questo è amato dai tifosi».
Moratti, la Toscana e le perle della Versilia.
«Un luogo del cuore. La mia seconda casa. Sin da bimbo ho frequentato le spiagge di Viareggio e più tardi di Forte dei Marmi. Avevano un fascino irresistibile. Negli anni Cinquanta e Sessanta in riva al mare si facevano i campetti con la sabbia. Sfide accanite e infinite dove nessuno voleva perdere. Lì ho avuto il primo contatto con un calciatore. Mio padre era già presidente dell’Inter e il titolare di uno stabilimento balneare gli disse che in un bagno vicino c’era Miguel Angel Montuori, italo-argentino stella della Fiorentina di Bernardini che vinse lo scudetto del 1955. Così lo incontrammo anche perché l’Inter era interessata al suo ingaggio. Fu il mio approccio con il calcio dei grandi. I toscani poi sono in grado di lasciare la loro impronta. Da adolescente ho ammirato un personaggio come il livornese Armando Picchi, la spina dorsale della grande Inter che sapeva guidare il gruppo, aveva senso di appartenenza e coraggio da vendere. Nei miei 18 anni da presidente ho avuto come calciatori il montecatinese Fabio Galante, capace di portare una ventata di allegria nello spogliatoio, e il maremmano Marco Branca, un ragazzo intelligente che è stato importante anche a livello dirigenziale».
Ha cambiato idea su Simone Inzaghi?
«Confesso che non lo conoscevo abbastanza e all’inizio non lo consideravo adatto all’Inter. Mi sono dovuto ricredere: è un allenatore completo. Bravo nella comunicazione, nella gestione dei momenti difficili, tatticamente preparato e dotato di buon senso. Tra gli allenatori che ho avuto per certi versi mi ricorda Gigi Simoni, a cui resto affezionato assieme ai suoi meravigliosi ragazzi del 1997-98 che non vinsero lo scudetto per colpa di un sistema malato emerso anni dopo con Calciopoli. Anche Inzaghi, come faceva Simoni, nelle dichiarazioni usa pacatezza e non si esalta. Un antidivo diametralmente opposto a Mourinho. Su Marotta non ho mai avuto dubbi: l’avevo cercato ai tempi in cui era direttore nella Sampdoria dell’amico Mantovani».
C’è oggi un calciatore che le ricorda Ronaldo il Fenomeno e c’è stato un giocatore che non è riuscito ad ingaggiare?
«Ronny era unico ed inimitabile. Ma nel Barcellona mi ha impressionato Lamine Yamal, 17 anni e mezzo. Un giocatore pazzesco, con riflessi incredibili e che gioca con una semplicità disarmante. Il campione del futuro. Ai tempi della mia presidenza avrei voluto acquistare Cantona, con la sua personalità e le sue qualità l’Inter avrebbe vinto di più e molto prima. Ma era squalificato e ripiegammo su Paul Ince».
Facchetti e Prisco due interisti che le mancano tanto...
«Giacinto era prima di tutto una persona perbene. Un atleta eccezionale e un uomo dotato di grande buon senso mantenendo la schiena dritta. L’avvocato Peppino, dietro la sua ironia e l’innata simpatia, era un eroe di guerra e un principe del foro che nel suo lavoro aveva pochi avversari. Poi vorrei ricordare anche un altro collaboratore a cui sono molto affezionato e con il quale conservo un rapporto di amicizia...»
A chi fa riferimento?
«A un altro toscano come il dottor Stefano Filucchi, collaboratore di valore ed essenziale prima come responsabile per la sicurezza del club e poi come dirigente e accompagnatore dell’Inter. La sua dedizione al ruolo e i suoi preziosi consigli hanno avuto un’importanza rilevante nella vita della società nerazzurra».
Lei è nato alla fine del conflitto, dopo 80 anni di pace teme il rischio di un’altra guerra mondiale?
«Sono preoccupato, non disperato. E quando penso al futuro nel mondo ricordo sempre la frase di mio padre: “tutto nella vita è in prestito”. Sono fiducioso che alla fine si troverà un equilibrio che porterà alla fine del conflitto in Ucraina mentre mi trovo sgomento nel vedere ciò che accade a Gaza che è umanamente inaccettabile. Io che sono stato vicino al cardinal Martini di Milano confido nel nuovo Papa Leone XIV. Siamo di fronte a un pontefice di sostanza che saprà con coraggio ed equilibrio riallacciare un dialogo con tutti i fedeli sulla linea tracciata da papa Francesco».
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