Luciano Giovannetti, il cacciatore di Bottegone che collezionava ori olimpici nel tiro a volo: «A Los Angeles divenni una celebrità...»
Gli 80 anni del fuoriclasse tiravolista: «Mi dicono che ho vinto in Giochi senza americani né russi, ma li ho battuti entrambi, ai Mondiali del 1982»
PISTOIA. Ultimo pistoiese illustre intervistato in un 2025 ormai agli sgoccioli è Luciano Giovannetti, fuoriclasse tiroavolista di Bottegone che da poco ha compiuto 80 anni, essendo nato il 25 settembre 1945. Nel suo palmares i maggiori risultati sono: due ori olimpici (Mosca 1980 e Los Angeles 1984) e quattro titoli mondiali, ma da citare anche le decine di Gran premi delle Nazioni come atleta e altri titoli iridati e a cinque cerchi in veste di commissario tecnico.
Dal maggio 2015, una targa a lui dedicata compare nella Walk of fame dello sport italiano a Roma ed è riservata agli ex-atleti azzurri che si sono distinti in campo internazionale. In quel contesto compare pure l’abetonese Zeno Colò insieme tutti gli altri mostri sacri di tutti i tempi. Oggi qui scopriamo tanto del suo lato umano. Ad esempio quando racconta le drammatiche ore che hanno preceduto il grave ictus che nel 2012 lo costrinse su una sedia a rotelle poi abbandonata. Potrebbe levarsi dei sassolini o dei massi dallo stomaco, ma preferisce evitarlo. Dice solo: «Cinque ore prima del colpetto feci una telefonata per scrupolo. Era legata all’attività e mi turbò moltissimo perché mi sentii tradito». Oggi Giovannetti si muove in autonomia e guida la macchina. Gli occhi vivaci emanano la stessa luce di quando era un infallibile cecchino e vinceva titoli olimpionici e mondiali.
(Luciano Giovannetti in una foto recente)
Pochi lo sanno che nel 2007 ricevette a Monaco di Baviera dalle mani del presidente del Comitato olimpico internazionale Jacques Rogge l’encomio previsto nel quadro dei festeggiamenti per i cent’anni della Issf (International shooting sport federation). L’organismo lo ha definito l’atleta più forte al mondo di tutti i tempi nelle discipline del tiro sportivo. Luciano è il primogenito di Silvano, armiere in via Salceto a Bottegone e Doriana Santini. Ha una sorella minore, Luciana, nata nel 1955 di brillante carriera universitaria a Firenze e un figlio Federico nato nel 1983, già promettentissimo artista con lo pseudonimo Federico Giova.
Com’è iniziata la sua carriera?
«Cominciai tardi, non feci la trafila junior. Avevo tanta passione. Ero cresciuto tra i cacciatori. Mi interessava misurarmi con il tiro a piattello, ma avevo avuto poche occasioni di farlo. Nel 1966 seppi che a Piombino veniva organizzato il Gran premio dell’Industria. Mi iscrissi e partecipai con un Beretta modello S3, un fucile bigrillo dotato di canne di 71 centimetri. Si trattava di un’arma poco adatta. Erano previste due serie da 15 tiri. Realizzai 29/30 vincendo il trofeo che dava il diritto a partecipare alle finali nazionali a Roma. Lì con la stessa arma tirai 95/100 arrivando quarto. Iniziai a salire di categoria: in terza, seconda e prima. Molto importante fu in un Gran premio a Milano con 200 piattelli federale che vinsi con 196/200. E detengo tutt’ora un record italiano realizzato in Germania».
Lei è commendatore per meriti sportivi?
«Sì, dal 1984 quando a nominarmi fu il grande presidente Pertini dopo l’oro di Los Angeles. Era stato lo stesso Pertini a farmi cavaliere quattro anni prima dopo il titolo conquistato a Mosca».
Che differenza ha trovato tra il successo in Urss e quello in Usa?
«Devo dire che la differenza era la percezione tra la gente dell’importanza del titolo olimpico. In Russia era vissuto con una certa freddezza mentre in America ti facevano sentire una star».
E i festeggiamenti in Italia?
«Indimenticabili. Al Bottegone mi hanno accolto entrambe le volte in modo caloroso e con grande affetto. Ricordo le migliaia di persone assiepate che avevano invaso il paese e la Fiorentina bloccata come se ci fosse stato il Giro d’Italia».
Ha qualche episodio curioso da raccontare in merito a ciò che succedeva ai villaggi olimpici e fuori dai medesimi?
«Nei luoghi dei ritiri avevo sempre l’incarico di fare la spesa insieme all’aiuto cuoco Serafino Giani. Ricordo che alle Olimpiadi di Mosca ci veniva proibita la carne. Era ritenuta dannosa alle prestazioni sportive. Quando mi facevano uscire per comprare il pane andavo a mangiarmi di nascosto le cosce di pollo. A Los Angeles divenni una celebrità. Un giorno in un supermercato quando Giani mi indicò come campione olimpionico si materializzò una miriade di persone per scattarmi migliaia di foto con le Polaroid. Una scena incredibile. L’episodio più eclatante fu quando viaggiavamo su una strada a velocità folle. Fummo inseguiti dall’elicottero e fermati dalle auto della polizia. Serafino, che era al volante, disse agli agenti che ero il campione olimpico. A sirene spiegate ci scortarono e fecero strada per farci raggiungere la nostra metà alla massima velocità prima possibile».
Come ottenne la convocazione per Mosca?
«La Federazione organizzò cinque gran premi assicurando che il migliore avrebbe partecipato alle Olimpiadi. Vinsi in tutte le gare. Senza quella super performance non avrei avuto quella opportunità. L’ho capito solo dopo».
Si dice che le Olimpiadi 1980 e 1984 siano state meno competitive a causa del vicendevole boicottaggio Usa-Urss. È d’accordo?
«Per quanto mi riguarda nel 1980 ho battuto i russi e nel 1984 gli americani. Ho inoltre superato i migliori tiratori tutti assieme ai mondiali di Caracas del 1982».
Come avvenne il suo abbandono dell’attività di atleta?
«Avevo in tasca la convocazione per un Gran premio delle Nazioni. Chiamai il ct Ennio Mattarelli, medaglia d'oro ai giochi olimpici di Tokyo 1964. Lo ringraziai comunicandogli la mia decisione smettere per dare spazio ai giovani».
Poi cosa è successo?
«Fui nominato l’anno dopo commissario tecnico. Mattarelli nel frattempo aveva abbandonato quel ruolo. Tengo a dire che con lui siamo tutt’ora amici. Ci siamo sentiti anche pochi giorni fa al telefono. È sempre lucidissimo nonostante i suoi 97 anni».
Com’è stata l’esperienza da selezionatore?
«Come ct ebbi la Palma d’oro. Esercitai quel ruolo dal 1993 al 2012. Non esiste una nazione al mondo che abbia vinto di più di noi, ovvero: Olimpiadi, campionati del mondo, ragazzi, donne, junior. Seguivo tutto».
Poi la malattia la bloccò?
«L’ictus non c’entra. Altre cose erano accadute precedentemente di cui preferisco non parlare. Nel corso della mia carriera di dirigente avevo spesso rifiutato offerte faraoniche da arabi, brasiliani anche Est Europa. Non per i soldi ma per la volontà di rappresentare il mio Paese. In un periodo ho lavorato perfino gratis e a spese mie tanto era l’attaccamento».
C’è un trofeo che l’ha particolarmente inorgoglita?
«Quello dei festeggiamenti per i cent’anni della Issf, svoltisi nel 2007 a Monaco di Baviera purtroppo poco reclamizzato. Fui premiato come miglior atleta di tutti i tempi nelle discipline del tiro».
Lei vinse agli inizi degli anni ottanta, proprio quando la Nazionale di calcio si assicurò i Mondiali. È un caso?
«Qualcosa ci accomuna. Chiesi a Franco Carraro come poter assistere ad un partita. Lui mi invitò nel ritiro a Castillo che era off limits, con la squadra in silenzio stampa. Feci perfino il viaggio nel pullman della Nazionale per Italia - Argentina. Per me l’eroe della gara fu Gentile. Era un vero gigante».
Ha sempre vissuto a Pistoia?
«No. Per 20 anni ho abitato nel Bolognese. Sono rientrato a Bottegone nel 2003 dopo la separazione. Ricordo che ero ad Atlanta come ct quando nel 1996 morì mio padre, a 75 anni. Rientrai per un giorno e dovetti subito ripartire».
Ed ora cosa l'appaga?
«Ho una compagna dal 2004. Si chiama Clara. Non mi ha abbandonato nonostante la malattia. Non sono mai stato solo. Lei è schiva non vorrebbe essere citata. Dopo l’incidente abbiamo combattuto insieme. Mio figlio, ragazzo di talento. Ha avuto un buon successo come musicista, compositore e cantante anche negli States con il nome d’arte Federico Giova. Su Youtube si trova la sua produzione di bellissimi video e canzoni. Poi ha aperto una panetteria a Vergaio che gli sta dando soddisfazione».
E per l’anno che verrà quale può essere il regalo più bello?
«La salute. A una certa età è l’aspirazione più grande».
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