Il Tirreno

Toscana

L'intervista

Ugo Boggi, il chirurgo toscano dei trapianti di pancreas: «Ho eseguito 12mila interventi, se tornassi indietro non resterei in Italia»

di Maria Antonietta Schiavina

	Il professor Ugo Boggi al lavoro, a dx alla Maratona di New York e, sotto, premiato dalla sindaca di Carrara Serena Arrighi
Il professor Ugo Boggi al lavoro, a dx alla Maratona di New York e, sotto, premiato dalla sindaca di Carrara Serena Arrighi

Di Carrara, 60 anni, è direttore dell’Unità Operativa di Chirurgia Generale e Trapianti dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria pisana: «Mio padre era pediatra, lui però voleva che facessi il dentista. Dopo 8 ore in sala operatoria mi rilasso correndo»

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Quali storie si celano dietro il camice bianco di chi dedica la vita alla salute degli altri? Lo abbiamo chiesto a medici che ricoprono ruoli importanti e ambiziosi di potere, ma anche di sacrifici e rinunce. Il primo a raccontarsi è il professor Ugo Boggi, 60 anni, carrarese, specializzato in trapianti d’organo. Professore ordinario di Chirurgia Generale all’Università di Pisa e direttore dell’Unità Operativa di Chirurgia Generale e Trapianti dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria pisana, primo al mondo in interventi innovativi – come il trapianto di pancreas robotico – Boggi ha la più grande esperienza mondiale nella pancreasectomia con resezione vascolare, nonché quella europea in chirurgia robotica. E finora ha eseguito oltre 12.000 interventi chirurgici come primo operatore, tra cui oltre 2.300 pancreasectomie, e 1.500 trapianti d’organo. Tentando spesso anche l’impossibile.

Professor Boggi, per quante ore al giorno “vive” in sala operatoria?

«Opero cinque giorni su sette, salvo urgenze. Con una media di circa otto ore».

Si pensa che un chirurgo sia un po’ pazzo...

«Preferirei che si pensasse che i chirurghi non sono pazzi, ma persone dal carattere forte e determinato».

Lei lo è?

«Sono determinato, ma coraggiosamente prudente. Cerco sempre di trovare una soluzione per il paziente (coraggio), senza mai però venir meno al principio della prudenza».

Da bambino chi diceva di voler diventare?

«Confesso che non ricordo. Da ragazzo, invece, ero completamente immerso nel mondo dello sport (vela, classe 470). La vocazione medica è maturata gradualmente e ha preso dopo il sopravvento».

Suo padre era pediatra. Ha contato l’esempio?

«Credo di sì, ma soprattutto ha contato la consapevolezza che un medico deve essere sempre a disposizione degli altri».

Ma quando ha sentito il bisogno di studiare medicina? E perché ha scelto chirurgia, orientandosi poi verso i trapianti?

«Volevo diventare dentista, su suggerimento di mio padre, morto poco dopo l’inizio dei miei studi universitari. Con il tempo, valutando anche che la mia passione per la vela, difficilmente mi avrebbe garantito uno sbocco professionale, ho deciso di scegliere chirurgia, orientato verso quella toracica, perché papà era morto a causa di un tumore polmonare. Poi sono passato a chirurgia generale, pensando di avere più opportunità».

E i trapianti?

«Sono arrivati più avanti, man mano che maturavo professionalmente. È stata la mia prima occasione di lavorare in modo indipendente, dimostrando direttamente le mie capacità».

Avendo a che fare con la vita che sfida la morte, riesce a credere in Dio? E, se sì, prega prima di iniziare un intervento?

«Ho un’educazione cattolica e sono credente, ma prima di operare non prego. Cerco invece di pianificare tutto al meglio. In altri termini, mi considero un credente “illuminista”: credo in Dio, ma anche nell’intelletto umano, nello studio e nell’applicazione. E mi ci affido».

Qual è il suo stato d'animo affrontando un trapianto ad alto rischio?

«Sereno. Di fronte a ogni problema lo analizzo, cerco di scomporlo nelle sue parti essenziali e poi lo ricompongo sotto forma di soluzione. Se la vedo sono sereno. Se non la vedo, non procedo oltre».

E quando va bene, cosa prova?

«Sono contento per il paziente. Lo scopo di un medico dovrebbe essere quello di aiutare chi gli si affida. Ci tengo, però, a sottolineare che, in generale, e in particolare nei trapianti, il “tutto è andato bene” si valuta almeno dopo qualche settimana dall’intervento. L’esito immediato è importante, ma è solo l’inizio di un percorso».

Ma se qualcosa va male prova un senso di colpa?

«Porto i pazienti con me, penso continuamente a loro. Se l’esito non è stato favorevole, ma so di aver agito nel miglior modo, sono dispiaciuto però sereno. Se invece penso che avrei potuto fare meglio, prendo insegnamento dal caso per il futuro. La serenità, a mio parere, non è segno di freddezza o disinteresse, ma una caratteristica indispensabile per svolgere un lavoro che contempla inevitabilmente anche l’insuccesso. Senza contare che perderla potrebbe far “tremare la mano”... Il disinteresse, invece, sarebbe pericoloso e non creerebbe le basi per migliorarsi».

Per anni, dopo la vela, ha praticato podismo. Riesce ancora a trovare il tempo per farlo?

«Il podismo è una passione amatoriale, un modo per mantenermi in forma e rilassarmi, soprattutto mentalmente, perché il mio vero sport è stata la vela, con cui ho fatto parte di tutte le squadre nazionali, fino al gruppo dei “probabili olimpici”. Militando nel gruppo sportivo dell’Aeronautica Militare. Purtroppo, trovare spazio per la vela è difficile, però anche correre non è semplice, perché con gli anni i miei impegni sono aumentati. Ma appena posso, mi basta fare pochi chilometri per rilassarmi».

Tornando a casa, stanco e stressato, riesce a staccare la spina?

«Non soffro d’ansia, ma lo stress che accumulo, se utile, lo trasformo in determinazione. Però una volta lasciato l’ospedale, spesso esausto, continuo a pensare all’intervento almeno per il resto della notte. Non è possibile avere due vite separate. La vita è una sola e, se è più facile lasciare i problemi privati fuori dalla sala operatoria, è quasi impossibile non portarsi dietro il lavoro. Mia moglie poi è medico anestesista e spesso ci confrontiamo sui nostri impegni».

Dove vi siete conosciuti?

«All’università. Abbiamo fatto la specializzazione insieme e lavoriamo nello stesso ospedale. Con lei ho condiviso tutto. È riuscita a capirmi nei lunghi anni – non ancora finiti – in cui il lavoro è stato totalizzante. Non so se senza il suo appoggio sarei riuscito a realizzare ciò che volevo».

Avete due figlie. Che strada hanno intrapreso?

«Una, Ilaria, ha studiato economia ed è impegnata in politica. L’altra, Sara, ha scelto giurisprudenza e si sta preparando per il concorso notarile. La maggiore mi ha anche reso orgogliosamente nonno».

Se tornasse indietro rifarebbe lo stesso percorso?

«La medicina, e la chirurgia in particolare, sono la mia vita. Rifarei tutto, ma (e dirlo mi costa) forse non in Italia, dove il sistema sanitario pubblico è in una crisi più di idee e di uomini, che di risorse economiche: il rapporto medico-paziente è cambiato, passando da un legame quasi paternalistico a uno spesso conflittuale, che non aiuta chi lavora seriamente».


Il profilo
Nato a Carrara il 21 giugno 1965, Ugo Boggi è un chirurgo di fama mondiale nei settori della chirurgia dei trapianti e oncologica, con particolare riferimento alle neoplasie del pancreas, del fegato e delle vie biliari. Nel 1990 si è laureato con lode in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Pisa, conseguendo successivamente due specializzazioni con lode: Chirurgia Generale, Chirurgia Addominale ed Endoscopia Digestiva Chirurgica. Successivamente si è formato al Cabrini Medical Center di New York. Professore ordinario di Chirurgia Generale all’Università di Pisa e direttore dell’Unità Operativa di Chirurgia Generale e Trapianti dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria pisana, è stato presidente della Società Italiana Trapianti d’Organo e Tessuti (SITO) ed è è presidente dell’Associazione Italiana di Chirurgia Epato-Bilio-Pancreatica (AICEP). ). È Editor-in-Chief della rivista scientifica internazionale Updates in Surgery (classificata in Q1 tra le riviste chirurgiche da Clarivate Analytics) e Editor-in-Chief nonché fondatore della rivista scientifica European Journal of Transplantation. È stato presidente del 125° Congresso della Società Italiana di Chirurgia e attualmente presiede il 19° Congresso della International Pancreas and Islet Transplant Association (IPITA).


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