Il Napoli e Antonio Conte: dalla partenza choc allo scudetto più bello, la cavalcata di un allenatore guidato da un’ossessione unica
Il quarto campionato nella storia azzurra è il più inaspettato, ma anche il più voluto: il racconto della stagione super
Una cosa grande come il Vesuvio e fragrante come una pizza margherita appena sfornata. Bella come una canzone di Pino Daniele e commovente come uno sguardo di Massimo Troisi. Allegra come Pulcinella e colorata come il lungomare Caracciolo al tramonto, magari con 400 motorini in viaggio verso l’hotel del Cagliari per non far dormire i giocatori avversari prima della partita decisiva.
C’è tutto il meglio di Napoli dentro al quarto scudetto della storia del Napoli Calcio. Il meno atteso, il più sorprendente. Per tutti. Ma non per Sant’Antonio da Lecce, l’allenatore capace di vincere ovunque. A tutti i costi e anche contro tutti. Perfino contro la sua stessa società che gli ha tolto qualche stella durante la stagione dandogli così (ma non ce n’era bisogno, chi conosce Conte lo sa) ancora più voglia di brillare rispetto a squadre sulla carta maggiormente attrezzate. Unico tecnico a trionfare con tre squadre diverse.
Nella notte del tripudio tricolore, tra cori, salti e champagne, a Napoli esiste solo il presente: la festa e la gioia, le lacrime e i bòtti che illuminano il cielo sopra piazza del Plebiscito. Eccola la grande bellezza biancazzurra dentro la bombonera dedicata a Diego Armado Maradona. Un sorso di felicità da bere qui e ora. Fino all’ultima goccia. Non c’è passato oggi e nemmeno un futuro (almeno per una notte). Figurarsi quanto è distante il diciotto agosto 2024, prima giornata di campionato. L’inizio del film dello scudetto sembra lontanissimo. È il paleolitico di un miracolo sportivo che appartiene a trentotto ere geologiche fa. Tante quante le giornate di campionato trascorse: dal Verona di allora, al Cagliari di ieri. E a ripensarci adesso, con il tricolore cucito addosso, un inizio così brutto è stato il migliore possibile da cui (ri) partire.
E ora è bene ricordarlo per chi ha poca memoria, e in questo Paese dell’oggi per sempre, sono molti. Il Napoli si presenta a Verona per l’esordio stagionale con gli occhi di tifosi e addetti ai lavori addosso, la sfida del Bentegodi è il primo posticipo domenicale. C’è curiosità nel vedere se c’è già la mano di Conte su una squadra che l’anno prima non era riuscita nemmeno a centrare l’Europa. Ritmo, garra, profondità? Niente di tutto questo. Per i partenopei quello che si vede in campo è un disastro: tre gol presi in appena trentaquattro minuti, Kvaratskhelia – allora riferimento della squadra – costretto a uscire per infortunio, zero idee e un linguaggio del corpo dei giocatori arrendevole, quasi rassegnato. È vero non era ancora disponibile Lukaku e Osimhen, che sarebbe stato ceduto a breve, risultava indisponibile. Al triplice fischio finale l’inquadratura insiste sul linguaggio del corpo di Antonio Conte: il tecnico ha le mani nei capelli, le ginocchia piegate e le occhiaie di chi sa già di non avere il tempo di dormire nei prossimi giorni. Otto mesi dopo ecco la trasformazione: la prima vittima (del campionato) che si veste nel carnefice (dei rivali). Due istanti lontani, opposti. Facce della stessa medaglia. In mezzo c’è lui: l’allenatore apparentemente schivo, sornione e permaloso, capace di ribaltare un’altra volta il mondo (del football). Ha preso a calci i pronostici (forse anche qualche giocatore), ha reinventato la squadra partita dopo partita modellandola a seconda delle esigenze: infortuni, partenze e arrivi (pochi).
Non ha mai guardato indietro, ma sempre avanti. Ripetendo a sé stesso, ma soprattutto alla squadra, il suo mantra: «Chi vince fa la storia, gli altri la leggono». Una frase che è un’ossessione, un mantra che gli è entrato nelle sinapsi da calciatore, durante gli anni d’oro alla Juventus, dove ha vinto tutto alimentando quella bulimia di successi che passando dal campo alla panchina non ha più abbandonato. Siena, Arezzo, Bari e Atalanta per ambientarsi al ruolo di condottiero. Poi la maturità alla Juventus aprendo un ciclo vincente con 3 campionati consecutivi e 2 Supercoppe Italiane.
Dopo l’esperienza alla Juventus approda sulla panchina della Nazionale, risollevandola dalle macerie del Mondiale 2014 e riavvicinandola al cuore degli Italiani. Ricomincia dall’Inghilterra e da Londra, sponda Chelsea: vince il campionato al primo anno e la Coppa d’Inghilterra al secondo. Torna in Italia sulla panchina dell’Inter e riporta lo scudetto a Milano, interrompendo il ciclo di vittorie di nove scudetti consecutivi della Juventus aperto proprio con lui alla guida. Ma spesso – dirà qualcuno – aveva la squadra migliore, stavolta no. È vero che non partecipava alle Coppe ma la rincorsa sull’Inter, l’aver staccato Juve e Atalanta, tenuto a bada l’orgoglio di Lazio e Roma e sfruttato la crisi del Milan, sono state un capolavoro. Anche perché – diranno ancora i detrattori – è stata più l’Inter a perdere lo scudetto con il ko contro la squadra di Ranieri in casa e pareggiando domenica scorsa in casa con i biancocelesti. Ma se il Napoli non fosse stato così a ruota con quella voglia di vincere, il finale sarebbe stato di altri colori. Invece ecco la linea del traguardo: è tricolore, c’è scritto Napoli ma si legge Antonio Conte.