Morto nel cantiere Esselunga, la moglie di Luigi Coclite: «Chi l'ha ucciso chieda scusa a me e ai miei figli»
L’operaio livornese ha perso la vita sul lavoro insieme ad altri quattro lavoratori: «Dopo due mesi ancora non c’è nessuno iscritto nel registro degli indagati. Quando sono arrivata lì ho visto una scena surreale»
LIVORNO. «Sa come si dice quando ti trovi in una situazione in cui non hai scelta? O bere o affogare. E io non voglio affogare, non posso permettermelo. Lo faccio perché ho due figli adolescenti da proteggere che sono la priorità. E poi l’obiettivo è avere giustizia per quello che è successo a mio marito: ucciso sul lavoro. A distanza di più di due mesi non c’è ancora una persona iscritta nel registro degli indagati. So che gli investigatori stanno facendo approfondimenti, ma questo per noi è difficile da capire. Un desiderio? Quando tutto sarà finito e ci sarà una sentenza di colpevolezza, perché ci sarà, vorrei che gli assassini, visto che si è trattato di un omicidio e non di un incidente, venissero da Lucrezia, Alessio e da me e guardandoci in faccia ci chiedessero almeno scusa».
Simona Mattolini, 50 anni, vedova di una morte bianca e maledetta, parla con gli occhi e con i gesti, più che con le parole: li chiude, appoggiando la mano sinistra sul cuore, quando un ricordo è più doloroso. E li spalanca, unendo le mani come per proteggersi dalla tentazione quando, invece, vorrebbe dire di più e si trattiene. «Se dicessi quello che penso – ammette – dopo la pubblicazione di questa intervista avrei una decina di querele dalle quali difendermi. E non mi sembra il caso», dice inclinando la testa e tirandosi su le maniche del maglione turchese e scoprendo un tatuaggio a forma di cuore sul polso. «Ne ho nove, ne farò altri due. Ma non le dico quali», anche se non ci vuole molto a ipotizzare quale sarà il tema. Il suo racconto inizia al tavolo di un bar alla periferia di Livorno: «Ci vediamo alle due», è l’ultimo messaggio prima dell’incontro. Accanto a lei c’è Katia, amica di sempre, testimone della storia d’amore tra Simona e Luigi Coclite, arrivato a Vicarello dalla provincia di Teramo nel 1990 e morto a 59 anni con altri quattro operai nella strage del cantiere Esselunga, in via Mariti a Firenze. «Mi chieda – è la premessa – se posso le rispondo».
Comincia con questo patto, un viaggio dentro l’onda che ha travolto Simona la mattina del 16 febbraio scorso. Una melma densa, fatta da dolori profondi, immagini che non si dimenticano, rabbia, dicerie di paese, qualche lacrima che non riesce a trattenere e molti silenzi.
Sono passati più di due mesi, ci racconta quella giornata?
«Ho sentito mio marito al telefono mezz’ora prima che accadesse l’incidente. Verso le 8.15».
È stato un caso o succedeva sempre?
«Succedeva sempre, perché lui usciva di casa presto la mattina, anche alle quattro o alle cinque, a seconda di dove doveva andare. Così se mi dimenticavo di dirgli qualcosa lo chiamavo. Com’è successo quel giorno».
Che ricordo ha di quella conversazione?
«Luigi era tranquillo, come sempre. Se avesse percepito anche solo il minimo rischio non sarebbe andato. Lavorava con le betoniere da trent’anni. Comunque non abbiamo parlato di lavoro, perché quello restava sempre fuori dalla porta. Non era il nostro argomento».
Qual era il compito di suo marito? Che ruolo aveva nel cantiere?
«Portava la pompa che scaricava il cemento per fare il solaio (per spiegarlo meglio prende dal cellulare la foto di un palazzo in costruzione con accanto una betoniera, ndr). Vede questo braccio che arriva in alto, l’ultimo tratto è fatto di gomma e serve per indirizzare la gettata di cemento. Luigi con la pulsantiera doveva guidare quel braccio».
Era la prima volta che andava in quel cantiere?
«No, c’era stato altre volte, dipendeva dal tipo di lavoro che doveva essere fatto. Luigi era dipendente di questa ditta di Santa Maria a Monte dal 2020».
Come ha saputo dell’incidente?
«Ero al lavoro e mi è arrivata una telefonata dal titolare dell’azienda di Luigi. A quell’ora nessuno sapeva che cosa fosse successo. Mi ha detto del crollo e la prima cosa che gli ho chiesto è stata: “Da quanti piani è successo?”. Quando mi ha risposto: “Dal terzo”, ho fatto uno più uno. E ho capito che non c’erano speranze».
Che cosa ha fatto?
«Ho provato a chiamarlo ma Luigi non rispondeva. Poi sono salita in macchina con degli amici e sono andata a Firenze, al cantiere, in via Mariti».
È riuscita a entrare?
«Sì, dall’ingresso principale».
E cosa ha visto?
«Ho visto una scena surreale (il viso si trasfigura, ndr) . Ho visto la trave, il crollo. Ho visto tutto, ma non Luigi. Non l’ho fatto vedere a nessuno nemmeno dopo, perché lo devono ricordare com’era».
Ci racconta chi era suo marito?
«Era solo un grande lavoratore. Non gli pesava, direi che non aveva ritegno, neanche il sabato o la domenica. Se c’era da fare lui non si tirava mai indietro perché gli piaceva quello che faceva per vivere».
Questo a lei pesava?
«Ma no, se doveva lavorare il sabato uscivamo la domenica, altrimenti facevamo il contrario».
Passioni?
«L’Inter era la sua passione. Pensi che la settimana dopo, il 28 febbraio, doveva andare per la prima volta a San Siro a vedere la partita con l’Atalanta».
Durante il funerale don Roberto Canale ha ricordato come vi siete conosciuti. Cosa l’ha fatta innamorare di lui?
«Non saprei dirle come e cosa. Ci siamo conosciuti nel 1990 e ci siamo sposati nove anni dopo, il 7 agosto, giorno del mio compleanno, quest’anno avremmo festeggiato 25 anni di nozze. Pensi che bella festa sarà...».
Cosa ricorda del vostro matrimonio?
«Il caldo, tanto caldo. E le risate: ci divertimmo tanto».
Sempre il parroco ha denunciato il fatto che mille morti sul lavoro l’anno non possono essere definiti incidenti ma omicidi.
«Sono d’accordo. E aggiungo una cosa: ho chiesto a don Roberto di officiare la messa perché era l’unico che poteva ricordare Luigi. E di questo lo ringrazio».
Cosa vorrebbe oggi: giustizia, vendetta, attenzione, compassione?
«Non voglio essere compatita, voglio che i responsabili della sua assenza paghino per quello che hanno fatto. Se si parla di omicidio colposo, oggi ci sono presunti assassini che non sono stati iscritti nel registro degli indagati. Anche perché un anno prima dell’incidente di Firenze c’era stato quello di Genova, per fortuna senza vittime, sempre in un cantiere Esselunga».
Ogni volta che accade una strage sul lavoro tutti ripetono la stessa frase: “Mai più”. Passano meno di due mesi e dopo Firenze ecco Suviana. Cosa ha provato vedendo quelle immagini?
«Ho vissuto nuovamente lo strazio che passano le famiglie delle vittime. Rispetto a Suviana credo che siano due situazioni diverse. Il minimo comune denominatore esiste, perché ci sono persone che al mattino escono di casa per andare al lavoro e non rientrano più. Ma alla base ci sono cause diverse: dietro a quello che è successo a Firenze credo ci sia un errore umano, di calcolo, mentre a Suviana è stato qualcosa di diverso. Ovviamente sono percezioni, mi posso sbagliare, anche perché non riesco a leggere e guardare la Tv dopo quello che è avvenuto».
Chi le è stato vicino in questi mesi?
«Gli amici, la mia famiglia, anche quella di Luigi. Mia suocera era qui quel giorno».
Chi invece pensava che vi sarebbe stato vicino e invece non lo ha fatto?
«Fondamentalmente chi pensavo che ci stesse vicino lo ha fatto, degli altri mi importa poco».
Lucrezia e Alessio, i suoi due figli, come stanno?
«Per il momento sembra bene. Vediamo a lungo termine. Siamo seguiti dagli specialisti».
Se un giorno le dicessero che vogliono lavorare nell’edilizia come reagirebbe?
«Loro devono fare quello che vogliono, devono essere liberi di scegliere».
Sul suo profilo Facebook ha messo una bella foto di voi quattro insieme. Dove eravate?
«A Castiglioncello due o tre anni fa. Noi quattro insieme abbiamo poche foto. L’ultima l’abbiamo fatta il 7 agosto dello scorso anno per il mio cinquantesimo compleanno».
Sempre su Facebook ha scritto tra le altre cose: “Come cazzo fate a dormire la notte?”. E ancora: “Giusto per chiedere: non vi fate schifo?”. E per concludere: “Sabato mattina dovevano farsi vedere per un secondo di visibilità”. Con chi ce l’aveva?
«Le prime due affermazioni sono riferite ai colpevoli. Quella che riguarda la visibilità perché hanno parlato persone che nemmeno conoscevano Luigi, hanno perfino detto che eravamo separati. L’ho anche trovato scritto su un giornale».
A suo avviso è possibile fare qualcosa per combattere le morti sul lavoro?
«Se si vuole si può, ma per fare le cose si devono volere. Nel cantiere dov’è morto mio marito erano stati fatti, se non sbaglio, nove controlli in un anno e mezzo. Cosa avevano visto che era a posto? Un cantiere non è sicuro se un operaio porta il caschetto o le scarpe infortunistiche».
Per la prima volta la vedo arrabbiata da quando abbiamo cominciato l’intervista.
«È vero, sono arrabbiata. Perché è allucinante. E l’arrabbiatura aumenta perché nessuno è ancora iscritto sul registro degli indagati».
In questi mesi ha mai pensato che suo marito possa aver sbagliato qualcosa?
«No guardi, è impossibile. Una trave non può cadere in quel modo».
Eppure proprio l’altro ieri l’imprenditore del marmo Alberto Franchi ha detto che la colpa degli incidenti è degli operai.
«Quello che ha detto mi fa schifo. Se non ci fossero gli operai che lui ha offeso e denigrato lui non sarebbe dov’è. Se fossi un suo dipendente mi licenzierei: non ci si può permettere di parlare così delle persone».
A livello economico come fa adesso con due figli adolescenti e solo il suo lavoro?
«Ce la caveremo, non sono l’unica mamma monoreddito in Italia che ha due figli adolescenti».
La notte riesce a dormire?
«Ni, quando è successo è mancato il rispetto. Io non avevo bisogno di apparire ma di stare tranquilla. Volevo tutelare i miei figli e ce l’ho fatta, anche grazie a chi ha fatto muro intorno a me. Chi ha parlato di me e di Luigi non era il mio muro, ma persone con le quali in 30 anni non ho nemmeno bevuto un caffè. In tutto questo caos però c’è una cosa che mi ha fatto sorridere».
Quale?
«Che per fortuna la settimana successiva alla tragedia si sono lasciati Fedez e Chiara Ferragni e così giornali e tv hanno smesso di parlare della nostra tragedia e ci hanno lasciati in pace».
Qualcuno tra autorità, datore di lavoro e vertici di Esselunga l’hanno contattata?
«Ho incontrato la vicesindaca di Firenze (Alessia Bettini ndr), è stata molto disponibile. Ma quello che tutti devono fare è trovare le cause del crollo della trave. Se ne sono salvati tre. Sono gli unici che sanno davvero com’è andata».
La morte di suo marito rischia di essere una morte inutile?
«No. Pensi se quella trave fosse caduta quando il supermercato era aperto. Non si sarebbe parlato di cinque persone ma di decine. Pensi a quanti bambini vanno a fare la spesa con i genitori».
Adesso dove pensa che sia suo marito?
«So dov’è: è a casa con noi, dove lo abbiamo portato dopo la cremazione. Ci parlo ogni giorno, a volte litighiamo anche». Simona chiude gli occhi e sorride. Luigi è qui con lei. E ci rimarrà per sempre.
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