Prato, la storia del falso “made in Italy”: «Blocchiamo la merce qui e salta una sfilata di moda a New York»
Assemblea davanti alla confezione di Montemurlo dove c’è stato il pestaggio degli operai. Il sindacato Sudd Cobas racconta come funziona il sistema
PRATO. Lo chiamano e lo vendono come “made in Italy” ma sarebbe più corretto chiamarlo “made in Bagladesh” o “made in Pakistan”. Perché sì, è fatto in Italia ma viene prodotto alle condizioni di un paese del Terzo mondo. E’ questo il nocciolo della questione che da tempo agita il “distretto parallelo” di Prato, quello dove lavora un esercito di operai sottopagati e che ogni tanto, come è accaduto martedì mattina a Montemurlo davanti alla confezione-stireria Alba srl, sfocia nel pestaggio dei lavoratori che non ci stanno più a lavorare a certe condizioni (12 ore al giorno, spesso 7 giorni alla settimana, senza diritti).
Questa storia del “made in Italy” che luccica all’estero e odora di sfruttamento in Italia l’ha raccontata bene martedì sera Luca Toscano, il sindacalista del Sudd Cobas che ha organizzato la mobilitazione.
“Venerdì mattina eravamo in via Lecce, davanti alla fabbrica fantasma che è stata aperta per togliere il lavoro a chi ha preso i diritti (cioè ai 18 lavoratori dell’Alba in sciopero, ndr) – ha detto all’assemblea serale seguita al pestaggio – Un picchetto bloccava della merce. Bene, quella merce bloccata ha prodotto l’annullamento di una sfilata di moda a New York. Quei pantaloni costano 1.500 euro l’uno. Guardate la misura dell’ingiustizia; qui stiamo discutendo se un pantalone che viene venduto a 1.500 euro deve essere fatto da un operaio che lavora 40 ore a settimana per 1.500 euro (quello che chiedono i lavoratori in sciopero, ndr), oppure se deve essere fatto in via Lecce da un operaio che guadagna 1.300 euro lavorando 12/13 ore al giorno dal lunedì al sabato. In questa battaglia siamo tutti chiamati a dire che quel pantalone non deve essere fatto da degli schiavi, da lavoratori portati qui da un caporale (questo il sospetto del sindacato, ndr) per fare fuori chi ha preso i diritti e lavorare senza nessuna tutela, senza nessun diritto”.
Ora l’obiettivo del sindacato sono i committenti, perché il sistema è sotto gli occhi di tutti, anche se molti preferiscono non vederlo: le grandi case di moda commissionano un lavoro a un’azienda italiana, che a sua volta lo subappalta a una delle tante aziende, quasi sempre a conduzione cinese, ma anche albanese, come è il caso dell’Alba di Montemurlo, dove il rispetto del contratto di lavoro è un’utopia.
I grandi brand, sostiene il Sudd Cobas, fanno finta di non vedere. Dicono che non possono sapere che cosa succede all’inizio della filiera, ma poi sbandierano i codici etici facendo credere al consumatore che siano garantiti i diritti dei lavoratori lungo tutto l’arco della filiera. “Se è così – dice Luca Toscano – allora abbiano il coraggio di cambiare il loro modello di produzione. Facciano le assunzioni dirette dei dipendenti senza subappaltare la produzione”. Ovviamente non lo fanno perché così il costo del lavoro aumenterebbe. Preferiscono delocalizzare senza uscire dall’Italia. “Andrà così anche questa volta – dice il sindacalista – Verranno a dirci che non sapevano, toglieranno la commessa all’azienda sotto i riflettori e la daranno a una delle tante altre che lavorano a certe condizioni. Statisticamente sanno che è molto difficile essere colti in castagna due volte di seguito”. Almeno fino a quando i lavoratori non andranno a raccontarlo al sindacato, come succede sempre più spesso.