Il Tirreno

L'inchiesta

Nero alle cave, assolti perché non era riciclaggio

Uno scorcio delle cave
Uno scorcio delle cave

Le motivazioni del giudice: «Si deve parlare di evasione fiscale già prescritta, mancano i presupposti per il reato contestato»

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CARRARA. Sono state pubblicate le motivazioni di assoluzione per gli ultimi otto imputati dell’inchiestona del cosiddetto “nero alle cave”, tutti assolti dall’ipotesi di reato rimasta, cioè il riciclaggio.

Il riciclaggio è definito, articolo 648 bis del codice, “chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo; ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l'identificazione della loro provenienza delittuosa, ed è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 5.000 a euro 25.000”.

Sotto accusa erano rimasti Fabio Braccini (avvocato Giovanni Flora), Munish Kapur (avvocato Luca Pietrini), Andrea Simonelli (avvocati Giovanni Maria Altadonna e Valentina Ramacciotti) e Giovanni Simonelli (avvocato Giovanni Maria Altadonna), Eugenio Venezia, Giuliano Venezia, Maria Pia Venezia e Paolo Zanzanaini (questi ultimi quattro tutti difesi dagli avvocati Patrizia Baccigalupi ed Enrico Marzaduri).

La vicenda

Il giudice Fabrizio Garofalo, nelle motivazioni, premette che l’indagine aveva messo in evidenza una serie di operazioni commerciali nel 2013 di vendita di marmo da parte di imprese locali a ditte estere, in particolare indiane, per un corrispettivo superiore a quello indicato in fattura e che, per la parte eccedente, veniva versato in contanti. Tali operazioni, ricostruisce il giudice, venivano effettuate tramite l’intervento di intermediari, o broker, i quali, oltre a mettere in contatto venditori e acquirenti, intervenivano nella fase esecutiva del rapporto, provvedendo a consegnare materialmente alle ditte venditrici le somme in contanti corrispondenti alla porzione di corrispettivo non indicato in fattura. I broker così consentivano pertanto alle ditte venditrici di sottofatturare e quindi di sottrarre parte degli incassi all’imposizione fiscale.

E ancora le somme non fatturate, che venivano versate in contanti, erano fornite o direttamente dagli acquirenti o in caso di indisponibilità, erano anticipate o prestate in tutto o in parte, da soggetti indiani legati alle ditte acquirenti, presenti in Italia, che per la maggior parte svolgevano attività di commercio di gioielli anche se in un caso, uno di loro risultava vendere chincaglierie nei mercatini. Tutto questo, secondo la pubblica accusa, integrava a carico degli intermediari (broker) il reato di riciclaggio, in relazione al quale, il reato presupposto sarebbe stato quello dello svolgimento senza autorizzazione di servizi di pagamento.

Non c’è riciclaggio

Il giudice argomenta però che non si può parlare di riciclaggio in questo caso e, fra l’altro, non risulta nemmeno provato il reato presupposto, quello dello svolgimento senza autorizzazione di servizi di pagamento. Ad avviso del giudice, la situazione di fatto che si era venuta a creare era ben lontana da quella dell’erogazione di un servizio di pagamento, ma si concretava in accordi illeciti finalizzati alla raccolta di denaro contante ed al suo trasferimento materiale non a coloro che richiedevano il pagamento (le ditte indiane acquirenti il materiale lapideo), ma alle ditte che vendevano il marmo. Si è completamente al di fuori dal caso di abusivo esercizio di servizi di pagamento, a detta del giudice. Ergo, in mancanza di prova del reato presupposto automaticamente non sono configurabili le contestazioni di riciclaggio.

L’evasione fiscale

Le motivazioni si chiudono con una riflessione del giudice, il quale sintetizza quella che deve considerarsi l’effettiva qualificazione giuridica dei fatti. E spiega: «Come già evidenziato e si deve ribadire, tutta l’operazione era volta ad avvantaggiare le ditte venditrici del marmo che pretendevano verosimilmente a fronte di sconti sul corrispettivo di vendita, di riceverne una parte “in nero”, tanto che l’indagine veniva denominata “nero alle cave”. Alla luce di quanto emerso, gli intermediari, che mettevano in contatto acquirenti e venditori, agendo nell’interesse di entrambi, fornivano un contributo consapevole alla sottrazione all’imposizione fiscale delle somme ricevute in contanti (“in nero”) dalle ditte venditrici. Gli imputati pertanto concorrevano alla commissione del reato previsto dall’articolo 3 del decreto legislativo 74/2000», in sostanza l’evasione fiscale. Questo articolo recito: «È punito con la reclusione da tre a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi».

Ma, chiosa il giudice, «il tribunale ritiene di non dover affrontare un’istruttoria lunga e dispendiosa per l’accertamento di un reato, quello appunto di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 74/2000, per il quale è maturato il termine di prescrizione».

Da qui la decisione finale: «I reati contestati vengono riqualificati nel concorso dell’articolo 3 decreto legislativo 74/2000, da qui il non doversi procedere perché estinti per prescrizione. Disposta anche la restituzione dei beni in sequestro».
 

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