Il Tirreno

Livorno

L'intervista

Il livornese che crea il ghiaccio: «Così proviamo a salvare il mondo»

di Francesca Suggi
Andrea Ceccolini mentre sta mettendo in piedi la tenda che fa da campo base in Alaska durante tutta la spedizione
Andrea Ceccolini mentre sta mettendo in piedi la tenda che fa da campo base in Alaska durante tutta la spedizione

Andrea Ceccolini, l’ex "bimbo" della Padula, a Londra contro la crisi climatica: «Lavoriamo a una tecnologia per ispessirlo, da applicare a vaste aree dell’Artico»

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LIVORNO. Dalla Padula ai ghiacciai. Per salvare il mondo. Per combattere contro il global warming a colpi di robotica e intelligenza artificiale: Andrea Ceccolini è un livornese nel mondo che sta cercando di lasciare un pianeta migliore ai figli e alle nuove generazioni.

Ha 55 anni, ha studiato informatica all’Itis Galilei, madre di origine contadina, e padre macchinista in ferrovia. «Devo molto a loro, ai loro sacrifici, al loro duro lavoro e ai valori che ci hanno trasmesso. Di soldi ce n’erano pochi, ma non mancava niente. Abbiamo tutti iniziato a lavorare presto, per non essere di peso. Non mi mancavano gli esempi da seguire in famiglia, ed è ancora così coi miei stupendi fratelli», dice lui che da “bimbo” ha giocato fino a 19 anni nelle società dei Ferrovieri, Carli Salviano, Livorno 9, e infine Marinese-Tirrenia.

I valori trasmessi in famiglia, la preparazione dell’Iti e poi la laurea alla base dei suoi successi?

«Grazie all’Iti il mio primo lavoro a tempo pieno da programmatore alla Intecs di Pisa. Era il 1987 e nel giro di un mese mi trovai in Olanda a lavorare su progetti per la European Space Agency. Per fare passi avanti nella mia carriera sarebbe stato importante avere una laurea che ho preso successivamente, in Scienze dell’informazione a Pisa, poi completata nel 1994, con tanti sacrifici e passione. La laurea mi permise di fare un salto nella mia carriera e passare alla List di Pisa, nel settore della tecnologia per la finanza».

Il primo grande salto all’estero.

«Nel 1997 iniziai a lavorare ad un progetto molto importante per una banca londinese. Il progetto ebbe tale successo che sia il cliente che il mio datore di lavoro pensarono di farne un prodotto per altre banche, e mi chiesero di trasferirmi a Londra, e di fondare una start-up di tecnologia finanziaria, che chiamammo Ion. La nuova società ebbe subito grande successo, fino a diventare leader mondiale nel campo del trading elettronico nei mercati finanziari e poi espandersi velocemente in altri mercati. Ora è una grande multinazionale con oltre 16mila dipendenti e decine di uffici nel mondo. Io sono stato direttore tecnico per 20 anni. Nel 2018 decisi di lasciare Ion: avevo il desiderio di esplorare altri mondi. Fu come abbandonare un figlio. Poi nel giro di pochi mesi persi entrambi i genitori e un caro amico portato via dal cancro, e infine mi trovai nel mondo surreale provocato dal Covid. Avevo da tempo la passione per l’ambiente e, con tre figli adolescenti, una certa preoccupazione per il cambiamento climatico. Cercai di vedere tutti questi cambiamenti come un’opportunità. Mi misi di nuovo a testa bassa a studiare le scienze e le tecnologie più importanti per quello che sempre di più ci sta circondando: la transizione energetica e la salvaguardia degli ecosistemi più importanti per il pianeta. Volevo trovare qualcosa che portasse speranza ed ottimismo».

La voglia di dare un futuro migliore ai suoi figli da un punto di vista climatico l’ha portata a lavorare a una tecnologia che potrebbe ricreare il ghiaccio dell’Artico?

«Nel 2022 si presentò l’opportunità che cercavo, grazie ad un ex collega. Real Ice era appena nata, e aveva come obiettivo la salvaguardia del ghiaccio marino nell’Artico, come mezzo per rallentare la spirale del riscaldamento globale. Serviva aiuto per la tecnologia, l’analisi dei dati, la pianificazione del lavoro, le relazioni con gli scienziati. Il ghiaccio marino è importante grazie alla sua capacità di riflettere le radiazioni solari, evitando che queste surriscaldino ulteriormente il pianeta. Purtroppo lo stiamo perdendo rapidamente, e al suo posto il mare aperto assorbe tantissima energia, che poi contribuisce al riscaldamento globale».

Come si salva il ghiaccio?

«Il metodo di base per salvare il ghiaccio è abbastanza semplice: quando ad inizio inverno il ghiaccio comincia a formarsi sul mare, si pompa acqua marina sopra la sua superficie, e questo lo aiuta ad ispessirsi più rapidamente. Il ghiaccio più spesso può sopravvivere più a lungo la successiva estate, contribuendo al raffreddamento del pianeta. La cosa difficile è applicare questo metodo a grandi aree – si parla di milioni di chilometri quadrati – in posti molto lontani dalla terraferma e da insediamenti, e in condizioni climatiche estreme. Questo richiede sistemi ad alta automazione, intelligenza a bordo e la capacità di intervenire senza emissioni inquinanti o gas serra. Questo é quello che stiamo progettando con Real Ice».

Qualcuno l’ha definita l’uomo che crea il ghiaccio per salvare il mondo?

«Con Real Ice e con le organizzazioni con cui stiamo collaborando sappiamo che stiamo lavorando ad un progetto con tante potenzialità. Bisogna chiarire che la crisi climatica si risolve riducendo le emissioni serra e catturando i gas serra già nell’atmosfera, in modo da tornare a livelli compatibili con quelli che hanno aiutato l’umanità a prosperare nel nostro pianeta nei millenni scorsi. Ma purtroppo siamo almeno 20-30 anni in ritardo con questo. Arrivare a “net zero” nel 2050 è un piano molto ambizioso che per ora non stiamo rispettando, e sarebbe solo la prima parte di quello che serve. In questo contesto salvare il ghiaccio dell’Artico può farci “comprare tempo” ed evitare gli effetti peggiori, mentre si lavora il più velocemente possibile alla “decarbonizzazione” della società. La mia generazione ha fallito a comprendere il problema ed a muoversi. Stiamo lavorando con grande impegno e serietà al nostro piano, ma siamo ancora una piccola start-up, con bisogno di supporto»

Quale è il suo obiettivo con questa start up?

«Vogliamo dimostrare che si può costruire una tecnologia per ispessire il ghiaccio che si possa applicare a vaste aree dell’Artico, e che sia efficiente in termini di energia usata, non inquinante e con alto grado di autonomia. Ci siamo dati fino al 2027 per farlo. A quel punto, se le istituzioni lo vorranno, si potranno produrre in grande scala gli strumenti che stiamo progettando. La chiave è adesso portare questa tecnologia sotto al ghiaccio: proprio così. L’unico modo per far sopravvivere una tecnologia complessa in queste temperature è tenerla in acqua, dove la temperatura è costante, ci si muove con poca energia in 3 dimensioni, e non si temono i movimenti, le spaccature o le creste del ghiaccio che ne rendono la superficie molto insidiosa».

Come si protegge il ghiaccio artico?

«Secondo i nostri calcoli se ogni inverno riuscissimo ad ispessire 1 milione di chilometri quadrati di ghiaccio artico, questo potrebbe compensare le perdite che stiamo osservando ogni anno, e addirittura portarci dopo qualche anno alla copertura del ghiaccio che si aveva negli anni’80, quando il rapido declino del ghiaccio marino è iniziato. Il costo? Un’inezia rispetto a quanto stiamo già pagando per i danni fatti dal cambiamento climatico. Per questo speriamo che i nostri test dei prossimi 2-3 anni vadano a buon fine e non mostrino nessun effetto indesiderato».

Cosa porta con sé di Livorno?

«Sono andato via da Livorno 26 anni fa, ma se ci fosse un esame di livornesitá, spererei di poterlo ancora superare. A parte gli scherzi, ci sono almeno un paio di cose in cui credo. La prima è di non prendersi mai troppo sul serio. La seconda è guardare oltre la facciata: è nella profondità delle persone, dei sentimenti, dei pensieri, dei nostri lavori, che si trova la bellezza. È una finta leggerezza. A guardarla da vicino si vedono i colori della malinconia, della speranza, della passione. Penso a Paolo Virzì e a Bobo Rondelli che hanno saputo raccontare la Livorno che amo, ma anche a Federico Sardelli, Daniele Caluri ed Emiliano Pagani, che nella bellezza delle loro creazioni sanno far parlare la nostra città in tanti modi nuovi».

Come vede Livorno e i livornesi da lontano?

«Torno a Livorno abbastanza spesso, ma non essendoci sempre immerso, noto abbastanza bene i cambiamenti. Per un po’di anni ho avuto l’impressione che Livorno vivesse una crisi d’identità. Sentivo molto pessimismo sul futuro. Ho notato che negli ultimi anni le cose sembrano andare di nuovo nella direzione giusta. Sembra che ci sia più attenzione agli ambienti cittadini e naturali, tanto volontariato, più iniziative culturali con spazi adeguati, una buona sistemazione di tanti spazi sportivi, più successo nell’attrarre turisti. Questo mi rende orgoglioso. Quando porto amici e colleghi stranieri a Livorno questi rimangono sempre sorpresi e stupiti. Nessuno immagina la bellezza che si vede da un giro sui fossi, la ricca e unica storia, il bel lungomare, l’atmosfera tranquilla, la semplicità che ti mette a tuo agio».

Quali differenze vede tra i paesi dove ha vissuto e l’Italia?

«Faccio riferimento al Regno Unito, agli Stati Uniti e all’India dove ho avuto il maggior numero di colleghi. Nella mia esperienza lavorativa personale sia in Italia che negli altri paesi si trovano facilmente competenza e impegno. In Italia le Università in generale preparano gli studenti molto meglio tecnicamente, ma meno bene per affrontare il mondo del lavoro. Peccato che il laureato italiano mediamente arrivi al primo lavoro a 25 anni, mentre all’estero a 21 anni. All’estero il mercato del lavoro è molto più fluido e dinamico, nel bene e nel male».

Che vita fa a Londra?

«Oltre al lavoro, che svolgo per la maggior parte da casa, faccio tanto sport. Sono appassionato di corsa da 15 anni. Faccio parte di un running club, Dulwich Runners, con una lunga tradizione di corsa su strada. Mi sono sposato nel 2001 con una ragazza finlandese. Forse anche per questo sono stato attratto dall’Artico. I miei figli sono tutti nati a Londra, e sono ormai grandi. Qui l’Inghilterra del Brexit è in grande minoranza e si vuole un mondo aperto e solidale. Da 7 anni ho iniziato anche a fare corse in montagna. Questo fa parte del mio amore per l’ambiente. Nel 2023 ho completato la mia gara “da sogno”, la Ultra Trail du Mont Blanc, un vero e proprio campionato del mondo di corsa in montagna, attorno al Monte Bianco, 173 km con oltre 10000 metri di dislivello positivo. Quando sono a Livorno mi alleno nei Monti Livornesi, tra Valle Benedetta, Montenero, Gabbro e Nibbiaia».

Cosa consiglia ai ragazzi livornesi che hanno sogni da realizzare?

«Imparate l’inglese, viaggiate, cercate di assaporare le realtà all’estero o perché no, anche in altre città in Italia. C’è un mondo là fuori che vi aspetta, che ha bisogno della vostra competenza, energia e voglia di fare. Provateci con umiltà, ma non sentitevi inferiori. Senza sbagliare è difficile imparare sul serio»

All’estero cosa le manca della sua città?

«Qui a Londra ho appeso in sala una foto scattata da una cara amica livornese delle “Vaschette” di Calafuria. Ecco, ogni tanto vorrei chiudere gli occhi e ritrovarmi li. Il mare mi manca tanto. Quando vengo con la mia famiglia, provo a trasmettere i miei i punti di riferimento. Li porto al mercato coperto, in Venezia, sul lungomare di Ardenza e Antignano, a fare un tuffo a Calafuria».

Si vede pensionato a Livorno?

«Dipende molto da dove decideranno di andare i figli. Se fanno come me e scappano in giro per il mondo, forse sì. Se rimangono nell’orbita di Londra, forse ha più senso rimanere vicino a loro. Comunque non mi vedo pensionato, questo è il problema. Dopo aver lasciato Ion in tanti mi hanno chiesto perché non mi ero spostato ai Caraibi in vacanza permanente, a prendere il sole. Non riesco proprio a stare fermo. Ma il sole lo vengo a prendere a Livorno».

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