Il Tirreno

Grosseto

La tragedia

Quel porto d’armi appena ripreso: l’ultima caccia di Renato Maestrini – L’amico: «Un uomo in simbiosi con i boschi»

di Elisabetta Giorgi

	La vittima (foto di Giovanni Rossetti per Maremma Magazine)
La vittima (foto di Giovanni Rossetti per Maremma Magazine)

Tirli sotto choc per la morte dell’80enne. «Una schiettezza d’altri tempi». Chi ha sparato è stato portato al Pronto soccorso di Grosseto in stato di choc

4 MINUTI DI LETTURA





TIRLI. «Ottant’anni portati con la schiettezza e la spontaneità di chi ha sempre vissuto “dentro” la macchia, non soltanto accanto».

È così che gli abitanti di Tirli (Grosseto) ricordano il compaesano Renato Maestrini morto ieri a 80 anni dopo essere stato centrato da un colpo di fucile accidentale: passo sicuro, voce asciutta, la naturalezza istintiva di chi riconosce un animale da lontano e che ieri è morto per una tragica fatalità. La notizia della sua morte è piombata in paese come una fitta improvvisa, di quelle che oscurano tutto.

Renato, una vita intera trascorsa a Tirli tra famiglia, lavoro e caccia, aveva ripreso il porto d’armi quest’anno, quasi per un moto d’orgoglio dopo un periodo di stop in cui le ginocchia gli avevano imposto di fermarsi. La passione non aveva mai smesso di bruciare. Così ieri mattina era uscito da solo, come aveva sempre fatto nelle ultime stagioni, per cacciare il colombo. Una camminata silenziosa tra foglie e vecchi sentieri che conosceva come pochi, in quello stesso tratto di bosco in cui c’era anche una squadra impegnata nella caccia al cinghiale. Due mondi separati che ieri si sono incrociati tragicamente.

Le prime voci a Tirli raccontano che Renato si fosse “infrascato” in attesa del passaggio dei colombi. Forse un rumore nella vegetazione, uno scalpiccìo come ce ne sono mille nella macchia, è stato scambiato per l’arrivo di un ungulato. Da lì il colpo per errore, e la morte. I carabinieri ricostruiranno la dinamica, ma il paese sa già che si tratta di una tragedia senza colpe “semplici”. Chi ha sparato, ieri mattina, è stato portato al Pronto soccorso di Grosseto in stato di choc.

Renato abitava alle “case nuove”, in via Panoramica: una vita tranquilla, da ex muratore che aveva messo radici solide come quelle degli alberi che costeggiano la strada per Tirli. Marito e padre esemplare, uomo rispettato, era stato per anni una doppietta di riferimento. Lo chiamavano il “cinghialaio di Tirli”. Il soprannome lo aveva preceduto fino alla sindaca di Castiglione, Elena Nappi, che pur non avendolo conosciuto di persona sa che è stato una delle colonne del paese.

Al bar trattoria Leccio Moro, in piazza del Popolo nel cuore della frazione, ieri mattina si respirava dolore.

Tonino Talarico, il titolare, aveva intuito già dal cielo che qualcosa non andava. «Pegaso - racconta al Tirreno - girava sopra il paese e a un certo punto si è fermato. Lì abbiamo capito. Poi sono arrivati i vigili del fuoco, le ambulanze… è stata una disgrazia. Renato qui lo conoscevano tutti, veniva da noi a prendere un caffè».

In tanti faticano a comprendere come sia potuto accadere, proprio a lui che aveva maneggiato un fucile per decenni. Maestrini aveva virato sulla caccia al colombo dopo una vita sugli ungulati, che custodiva ancor oggi dentro di sé.

La sua esistenza fatta di aneddoti e avventure Renato l’aveva raccontata con passione solo qualche mese fa (era agosto) a Giovanni Rossetti, accademico d’arte, fotografo e amico. Un’intervista che per una beffa del destino è uscita questo mese su Maremma Magazine - la rivista diretta da Celestino Sellaroli - e che era nata quasi per caso, quando Renato si era presentato a Tirli nella casa del fratello di Giovanni con una maglietta con su scritto “cinghiale” e un disegno di un ungulato. Rossetti si era incuriosito, gli aveva proposto di parlare della sua storia, e Maestrini aveva accettato di buon grado. Il risultato è uscito proprio questo mese: un ritratto bellissimo e sincero, accompagnato da foto che mostrano un uomo ancora innamorato della sua macchia. Racconta di aver preso il porto d’armi a 18 anni, con la responsabilità del fratello perché “il babbo non ce l’avevo”. Ma da un paio d’anni aveva smesso perché «i ginocchi» gli facevano male, diceva. I cani li teneva ancora: «Ne ho cinque». Quest’anno però la decisione di tornare. «Sempre da solo», raccontava. Con lo stesso spirito di quando in passato seguiva i cinghiali nei terreni stretti, «dove a volte l’animale era “frascato”, altre volte attraversava lo stradello e bisognava tirare al volo». E ricordava, con una specie di sorriso stanco, il pericolo costante delle battute di un tempo: «Eravamo in tanti… ci si poteva anche chiappare».

Parole che agli abitanti del paese suonano oggi come un presagio amaro. La macchia che lo aveva accolto per tutta la vita ieri mattina si è richiusa su di lui. Resta Tirli come un paese ferito, appeso ai racconti di chi lo ha conosciuto davvero, e alla consapevolezza che certe tragedie non hanno spiegazioni, solo una dolorosa memoria da custodire ancora.


 

Primo piano
La tragedia

Prato, muore colpito da una fucilata durante la battuta di caccia al cinghiale: chi è la vittima

di Tiziana Gori