Genitori contro prof, lo psicoterapeuta: «Il 5 ai figli insegna». I consigli ai genitori e il parere sulle chat
Giuseppe Lavenia si rivolge anche agli insegnanti: «Andare incontro alle famiglie non significa assecondarli, ma tenere saldo il timone»
«Un tempo il problema era l’eccesso di rigidità: padri e madri che parlavano poco e comandavano molto, con il rischio di crescere figli obbedienti ma non liberi. Oggi il rischio è opposto: genitori che trasformano il figlio in un “diritto da difendere”, come se fosse un lavoratore da tutelare con un sindacato sempre pronto ad alzare la voce». Per Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta e docente universitario, così – anche se per eccesso di amore – si fa soltanto del male ai propri figli.
Dottore, come si è passati da una famiglia un tempo rigorista a una quasi “sindacalista” del figlio?
«Abbiamo assistito a un rovesciamento radicale. Nel mezzo si è perso l’essenziale: la crescita richiede limiti, errori, cadute. Non c’è sviluppo psicologico senza frustrazione. Un cinque in pagella non è un abuso di potere, è una ferita che insegna. Difendere sempre e comunque significa illudere i figli che il mondo sarà sempre indulgente, e questo è il regalo più pericoloso che possiamo fare loro: perché prima o poi la realtà presenterà il conto, e sarà molto più duro di qualsiasi rimprovero scolastico».
Ma da cosa nasce il divario (sempre più marcato) tra genitori e docenti? Perché non riescono più ad andare a braccetto?
«Il divario nasce da un crollo dell’autorevolezza. Un tempo l’insegnante godeva di un riconoscimento “a priori”: se diceva una cosa, era creduta e rispettata. Oggi deve giustificare ogni scelta, quasi come fosse sotto processo. Parallelamente, i genitori vivono la scuola come un tribunale che giudica non solo i figli, ma anche il loro modo di essere padri e madri. Per questo si schierano: non per educare, ma per difendersi. È un circolo vizioso che ha rotto il patto educativo. Da una parte famiglie che alzano gli scudi, dall’altra docenti che si barricano nel silenzio o nella burocrazia. Non vanno più a braccetto perché non si riconoscono più come adulti che condividono la stessa missione. Si percepiscono come avversari, e quando gli adulti si dividono, i ragazzi restano senza guida».
Quali consigli possiamo dare ai genitori?
«Serve il coraggio di accettare una verità scomoda: i figli non hanno sempre ragione. A volte mentono, sbagliano, scelgono la strada più facile. Un insegnante che richiama o mette un voto basso non sta distruggendo l’autostima del ragazzo, ma gli sta dando una possibilità di crescere. La scuola non è una fabbrica di carezze, ma un laboratorio di vita. Un genitore che vede in ogni nota un affronto e in ogni richiamo una minaccia non prepara il figlio al mondo: lo condanna a vivere nell’illusione di avere sempre qualcuno pronto a difenderlo. Un giorno, però, nessuno lo difenderà più. E allora quella “protezione” diventerà la sua più grande fragilità».
Quali strumenti hanno gli insegnanti per andare incontro ai genitori?
«Hanno poche armi, ma devono saperle usare bene. La prima è la chiarezza: dire le cose in faccia, senza temere di essere impopolari. La seconda è l’ascolto: perché dietro l’aggressività di tanti genitori c’è spesso la paura di non essere all’altezza, la vergogna di fallire. La terza, la più importante, è la fermezza. Un insegnante che arretra davanti a ogni richiesta, che abbassa sempre l’asticella per non avere problemi, diventa invisibile. E un insegnante invisibile è un disastro educativo. Andare incontro ai genitori non significa assecondarli, ma tenere saldo il timone: mostrare che regole e limiti non sono muri, ma strumenti di crescita».
Si parla tanto delle chat dei genitori: possono avere un ruolo negativo nei rapporti tra famiglie e docenti?
«Le chat sono lo specchio del nostro tempo: nate per semplificare, spesso diventano armi di distruzione relazionale. Un rimprovero scolastico diventa un caso nazionale, un voto basso scatena alleanze contro l’insegnante. Così il genitore si convince che il problema non sia il figlio, ma la scuola. È la logica del branco digitale: più che cercare soluzioni, ci si rinforza nelle accuse. Non è la chat a essere negativa, ma l’uso che ne facciamo: se diventa sfogo e tribunale, logora il rapporto con i docenti. Se resta strumento logistico, aiuta. Ma oggi troppe chat sono il megafono dell’impotenza degli adulti, e i figli imparano una lezione terribile: che basta coalizzarsi per sentirsi sempre nel giusto».
© RIPRODUZIONE RISERVATA