Il Tirreno

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L’intervista

Livorno, suo padre è morto sul lavoro a 76 anni: «Io, assessore e orfano lotto per più sicurezza»

di Federico Lazzotti
L'assessore con il padre
L'assessore con il padre

Federico Mirabelli, 49 anni, da meno di un mese vive diviso in due tra impegno civico e umano dolore

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LIVORNO. Assessore al lavoro e orfano per il lavoro. Federico Mirabelli, 49 anni, da meno di un mese vive diviso in due tra impegno civico e umano dolore. Tutto è cominciato la mattina del 10 aprile quando suo padre Massimo, 76 anni, è morto di fatica mentre stava scaricando la biancheria all’albergo “Ercolini e Savi”, pieno centro di Montecatini. Era il suo primo giorno di lavoro. «Mio babbo continuerà ad esserci nei nostri ricordi, nei nostri pensieri e nei nostri cuori», scriveva l’assessore livornese il giorno del funerale.

Assessore, venti giorni fa ha perso suo padre. Cosa le è rimasto dentro oltre al dolore: ricordi, rabbia, rimpianti?

«Soprattutto ricordi. L’ultimo riguarda la mattina del 10 aprile quando è uscito di casa. Verso le sei ero già sveglio come mia abitudine e l’ho sentito in tutti quei suoi gesti quotidiani: la preparazione della colazione, la rigovernatura della tazza, prepararsi per uscire fino alla chiusura della porta. I rumori di vita. Stanno emergendo moltissimi ricordi, frammenti di momenti vissuti insieme da quando ero piccolo fino a quelli più recenti, che oggi assumono un valore affettivo speciale».

Se potesse vorrebbe tornare indietro e cercare di convincere suo padre a non andare al lavoro?

«La generazione di mio padre, quella nata nell’immediato dopo guerra, ha in sé un profondo senso del dovere e del sacrificio. È una generazione inarrestabile. Non l’avrei potuto convincere. Era il primo giorno di lavoro, iniziava la prova secondo il contratto di assunzione».

Dopo la tragedia ha ringraziato le persone che sono state vicino a lei, sua mamma e sua sorella. Ci racconta la cosa che più le ha fatto piacere?

«L’affetto delle persone vicine e lontane nei confronti di mio padre e della mia famiglia. Era una persona di poche parole, con un carattere mite, apprezzato da tutti, dai suoi familiari, dai suoi amici storici del rione Ardenza e nell’ambiente lavorativo, dove si caratterizzava per serietà, dedizione e passione».

Anche gli ultrasettantenni sono costretti, sempre più spesso per necessità, ad andare al lavoro. È il segno che il sistema ha fallito?

«È il segno che il mondo del lavoro è profondamente cambiato e che una larga parte del Paese vive nella fragilità sociale. Quando avevo vent’anni si è iniziato a parlare di lavoro precario. Oggi, alla soglia dei cinquant’anni, si parla di lavoro povero, cioè precario e mal retribuito. Quindi per una parte consistente della nostra società le condizioni di vita non sono migliorate e l’ascensore sociale è bloccato. In questo contesto i nonni hanno assunto un ruolo fondamentale integrando il sistema di protezione sociale. Per invertire la rotta è necessario investire nel sistema dell’istruzione».

Ogni volta che accade una tragedia, l’ultima a Carrara, sindacati, politica e società civile si indignano ripetendo la stessa cosa: “Mai più”. Invece poi succede sempre di nuovo. Perché sembra impossibile bloccare questa piaga?

«Ogni attività lavorativa, sia di concetto sia manuale, comporta dei rischi. Non esiste il rischio zero. Dobbiamo agire pertanto nella riduzione del rischio. In questo senso ritengo fondamentali due concetti: informazione e responsabilità. Informazione consiste nell’avere piena consapevolezza della propria attività lavorativa. La formazione delle lavoratrici, dei lavoratori e dei datori di lavoro è strategica in questo senso. Responsabilità significa dare valore alla vita delle persone e metterle al centro del progetto imprenditoriale e produttivo, ponendo in essere atti e azioni corrette nel rispetto della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Queste due parole sono i presupposti necessari per costruire una moderna cultura del lavoro e della sicurezza».

Oggi è il 1° maggio. Che cosa farà e come lo vivrà?

«Probabilmente staremo a casa. Questi giorni di festa sono particolarmente difficili, si avverte l’assenza di mio padre nella quotidianità e nella sfera affettiva. Ci serve tempo per convivere e trasformare il dolore della nostra perdita».

Da quando ha vissuto una simile tragedia sulla propria pelle è cambiato qualcosa in lei come politico che ha nelle sue deleghe di assessore del Comune di Livorno proprio il lavoro?

«È stato uno strappo improvviso che segna prima di tutto la persona. Un evento traumatico che porta in dote una maggiore consapevolezza e rafforza in me la determinazione e l’impegno nello svolgere la mia funzione istituzionale, sui temi del lavoro, in particolare sul percorso per la definizione del Manifesto del Lavoro Buono».

Di cosa si tratta?

«L’idea è elaborare una carta di valori fondata sui seguenti punti che descrivono il lavoro buono. Per l’amministrazione comunale il lavoro buono deve essere: sicuro, regolare, stabile, scevro da qualsiasi forma di discriminazione, inclusivo, adeguatamente retribuito, qualificato e qualificante. Una sorta di “Manifesto del Lavoro Buono” da costruire e condividere con il contributo di tutti gli attori protagonisti. Uno degli obiettivi è promuovere un’azione culturale tesa a favorire una maggiore consapevolezza, da parte della nostra comunità, sul valore culturale, civile e sociale del lavoro, nelle sue diverse espressioni».

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