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L'intervista

Lido Vieri, il portierone di Piombino: «Il nostro è un calcio senza talenti, e vi spiego perché»

di Luca Tronchetti
Lido Vieri oggi e in azione tra i pali
Lido Vieri oggi e in azione tra i pali

Da mozzo ad estremo difensore del Toro, dell’Inter e della Nazionale. Piombinese d’acciaio: «Europei? Divertito solo dalla Spagna»

16 luglio 2024
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Il rettangolo verde come un’immensa distesa d’acqua che con lo scorrere dei minuti può trasformarsi in tempesta da arginare come il capitano di una nave che non vuol finire contro gli scogli. Gli occhi di ghiaccio Lido Vieri, mitico portiere del Torino (quinto assoluto nella storia granata con 375 presenze tra campionato, coppa Italia conquistata nel 1968, coppe europee) e dell’Inter (199 presenze e lo scudetto della prima stella vinto nella stagione 1970-71), sono rivolti verso il mar Tirreno: da Piombino a Bagnara Calabra dove oggi vive. D’altronde, per uno a cui è stato imposto dal parroco il nome Lido dopo il niet al padre che voleva chiamarlo Nilo, il litorale è elemento imprescindibile che si abbina al carisma di un numero 1 che martedì 16 luglio festeggia 85 anni: «Una cena con mia moglie e le telefonate degli amici del calcio come Ivano Bordon, ragazzo umile che mi è stato sempre vicino. Il regalo che vorrei? Una chiamata da Mariolino Corso, il più grande: un sogno che non potrò realizzare». Oggi osserva il pallone con un certo distacco: «Si gioca in un fazzoletto: o tutti in difesa o tutti all’attacco. Le qualità dei singoli si perdono in uno stucchevole giropalla, in una ragnatela di passaggi a centrocampo che annoia. Di talenti ce ne sono davvero pochi e in questo Europeo l’unica squadra che mi ha divertito è stata la Spagna per la freschezza dei suoi interpreti». Anche il ruolo è cambiato: «Deve partecipare all’azione, impostare coi piedi, scambiare con i difensori in area. Le mani sono diventate un optional: nessuno che blocca in presa un pallone, tutti a respingere con i pugni».

Da mozzo a portiere

Piombino, estate 1939. Lido Vieri nasce da genitori elbani: babbo Marzio, ex pescatore di Portoferraio riconvertito a impiegato delle ferrovie, e mamma Carmela, origini spagnole. Fisico scolpito nella roccia con un chiodo fisso: imbarcarsi come mozzo in un mercantile e viaggiare in tutto il mondo. «A 14 anni avevo già pronti i documenti per trasferirmi a Genova e partire su una nave per il Brasile». Un destino segnato che muta rotta all’improvviso: «Nel Dopoguerra giocavamo in piazza o nelle strade con palla di stracci e stoffa realizzata con le calze smagliate. La sfera di cuoio non ce la potevamo permettere e quello sport era puro divertimento. A tutto pensavo, ma non certo che il calcio sarebbe diventato la mia professione». Portiere per vocazione dopo aver visto le gesta di Doriano Carlotti, un altro elbano, che giocava in B nel Piombino di Valcareggi quando la Magona si riempiva di tifosi: “Era il mio idolo. Facevo il raccattapalle e stavo dietro la sua porta. Secco, dinoccolato, ma un coraggio da vendere nelle uscite. Un gatto che sognavo di emulare».

Il Toro all’improvviso

Dai ragazzi del Piombino alla prima vera squadra: il Venturina: «Il presidente era il farmacista del paese. Facevo 26 chilometri a piedi o in bici tra andata e ritorno per tenermi in forma, tanto di lì a pochi mesi mi sarei imbarcato». Invece il destino vuole che dal ristorante Otello sull’Aurelia transita il dottor Lievore, responsabile del settore giovanile del Torino, e che in quello stesso giorno a pranzo c’è pure il patron del Venturina: «Prenda quel Vieri, è una forza della natura». Il dirigente granata non se lo fa dire due volte: «Avevo 15 anni e dovevo fare una settimana di prova. Invece al Toro ci sono rimasto sino all’età di 30 anni. E nell’estate del 1969 spaccai a pugni la porta dello spogliatoio quando il presidente, per sistemare il bilancio, mi cedette all’Inter. Non volevo andarci anche se prendevo cinque volte di più di quanto mi davano i granata ».

Pinza, Bearzot e Rocco

Il Toro era famiglia, unione, senso di appartenenza: «Chi non ha indossato quei colori e quella maglia non lo può capire». Per i tifosi Vieri sarà per sempre “Pinza”: «Un soprannome che porto con fierezza. Ero un portiere istintivo, freddo, lucido, che non sentiva la tensione e che bloccava la palla senza respingerla. Paravo a mani nude, con i guanti di lana solo nei giorni di pioggia». Il suo primo maestro è stato Enzo Bearzot: «Per me non è stata una sorpresa quando nel 1982 ha vinto il mondiale da Ct. Era nato per fare l’allenatore. L’ho conosciuto in campo: lui capitano granata, io giovane emergente. Era uno psicologo eccezionale». E poi il triennio indimenticabile con il Rocco: «Per me stravedeva tanto che al suo rientro al Milan quando il Torino mi cedette all’Inter mise in giro la voce che avevo la schiena a pezzi soltanto perché non voleva che finissi con la concorrenza. E l’Inter, prima di farmi firmare, mi spedì due giorni in clinica per farei gli accertamenti sanitari. Con la Beneamata vinsi lo scudetto numero 10 in rimonta e con quattro punti dai rossoneri. I festeggiamenti? Una cena con i dirigenti. Tra i campioni dell’Inter ricordo con affetto Facchetti, un vero atleta».

Vieri e l’azzurro

Quattro presenze, ma campione d’Europa nel 1968 e vice campione del mondo nel 1970 senza mai vedere la panchina. Chiuso da mostri sacri come Albertosi e Zoff. «La verità? Non ci tenevo così tanto a indossare la maglia azzurra. D’estate preferivo andare a pesca in barca verso Pianosa. Quando Valcareggi mi convocò come terzo portiere in Messico volevo rinunciare. Alla fine fui costretto a fare la valigia. Mi portai una serie di libri di Ambrogio Fogar e Jacques Mayol per respirare l’aria di mare».

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