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L’intervista

Ragazza palestinese morta a Pisa, la madre: «Se dobbiamo diventare cenere, sarà in Palestina». I rischi per chi parla e torna a Gaza

di Libero Red Dolce

	Una foto di Marah Abu Zuhri e Martina Pignatti, direttrice di Un Ponte Per
Una foto di Marah Abu Zuhri e Martina Pignatti, direttrice di Un Ponte Per

In un’intervista con Martina Pignatti di Un Ponte Per emerge il coraggio della comunità palestinese, il dramma della malnutrizione e le difficoltà per accedere alle cure mediche

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Una vicenda straziante come quella della morte della 20enne palestinese Marah Abu Zuhri porta a focalizzarsi sul dolore e sul vissuto delle vittime, tenendo lo sguardo basso per non essere irriguardosi al cospetto della tragedia. È invece proprio la peculiarità di questa vicenda a sollecitarci ad alzare gli occhi, a cercare il contesto, per non prestare il fianco a una propaganda che accusa, senza fondamento, i medici italiani di aver occultato il referto della malattia diagnosticata a Marah a Gaza, con l’intento di usare la sua morte, e l’argomento della malnutrizione, per attaccare Israele. Due soli sono i fatti, tenacissimi: nella Striscia Marah non ha potuto avere l’assistenza sanitaria adeguata e quando è arrivata in Italia pesava 36 chili.

Insieme a Martina Pignatti, direttrice di Un Ponte Per, associazione pacifista impegnata tra l’altro nel sostenere Ong locali in Palestina, proviamo a capire come si vive in quel contesto adesso, quali sono le possibilità di accesso alle cure e perché Marah è una vittima di guerra, al di là del ruolo che la malnutrizione ha avuto nella sua fine. I funerali si terranno mercoledì 20 agosto alle 12, al Parco della Pace “Tiziano Terzani” di Pontasserchio.

Pignatti, voi avete incontrato la madre che ha accompagnato Marah in Italia per curarsi. Cosa vi siete dette?

«Ci siamo seduti con la madre e con altri membri della comunità palestinese che erano venuti a trovarla. Le abbiamo chiesto se avesse voglia di parlare di Marah e del suo ricordo e lei ha acconsentito. Le abbiamo detto che la storia di Marah ha commosso migliaia di persone in Italia e lei ha capito che sua figlia può diventare messaggera di giustizia e di pace, anche dopo la fine della sua vita terrena».

C’è chi ha detto che la madre non era deperita.

«È una donna minuta, che ha fatto tutto il possibile per dividere il poco cibo disponibile. Marah, però, non riusciva più ad assorbire il tipo e la qualità del cibo che avevano a disposizione e non c’erano strutture ospedaliere che la potessero aiutare. Spesso il cibo disponibile è in scatola, scaduto, e persino quello che riescono a procurarsi le famiglie più benestanti è di qualità infima».

Israele ha diffuso il referto di Marah dell’ospedale Naser per smentire che sia morta di malnutrizione. Ma ha senso fare queste distinzioni?

«Mustafa Barghouthi, medico e politico palestinese, ci ha inviato oggi dati drammatici: 258 palestinesi sono già morti di fame, inclusi 110 bambini. Ma sulla questione della fame voglio citare Michal Feldon, pediatra israeliano: “In Israele vediamo molti bambini con malattie croniche. Nessuno di loro appare così emaciato, e nessuno di loro muore per una combinazione di malattia e fame. Non muoiono di fame. Punto. Il cibo disponibile nella Striscia è farina, lenticchie, hummus e riso. Nella migliore delle ipotesi. Non ci sono né frutta né verdura, nessuna fonte di vitamine e quasi nessuna proteina. Con varie e numerose malattie metaboliche, è impossibile sopravvivere con questo cibo. Anche una persona sana non sopravvivrà a lungo”».

Israele rivendica di aver consentito loro di passare i controlli per andarsi a curare.

«Isarele autorizza l’uscita per motivi sanitari a un numero molto ridotto di persone, niente a che vedere con quelle che sarebbero le esigenze umanitarie. La madre di Marah ci ha detto che quando sono arrivati al valico di Rafah, gli israeliani hanno imposto loro di lasciare tutte le valigie, portandosi solo la borsetta. Lei aveva bisogno di medicinali personali, ma non le è stato permesso di portarli. È stato un ulteriore atto di crudeltà, che dà l’idea di quanto disprezzo ci sia da parte di queste istituzioni israeliane per la salute e la dignità delle persone».

Vi abbiamo chiesto di aiutarci a parlare con la madre di Marah, ma ci avete spiegato che è meglio di no. Perché?

«Ogni parola detta da una o un palestinese può essere usata da Israele contro di lui o la sua famiglia, rendendo difficile perfino il rientro a casa».

E lei vuole tornare.

«Le sue parole mi hanno colpito ha detto: “Non ho dubbi, voglio restare nella mia terra. Se dobbiamo diventare cenere, diventeremo cenere, ma sulla terra di Palestina”. Questa scelta non ha nulla a che vedere con Hamas, Fatah o altri partiti politici. È una forma di resistenza umana e politica: la disponibilità ad accettare il martirio come persone che scelgono di restare, a costo di morire di fame e resistere con dignità al tentativo di pulizia etnica. Dopo il 7 ottobre Israele non lascia più rientrare chi è uscito da Gaza, quindi questa signora tornerà in Egitto ma probabilmente rimarrà separata dal marito e dai figli finché non finirà la guerra. Potrebbero volerci anni».

Come opera un Ponte Per in Palestina?

«Noi abbiamo scelto di sostenere la Union of Agricultural Work Committees, un’organizzazione palestinese nata per supportare agricoltori e pescatori locali, che ora si sta dedicando all’emergenza umanitaria. A Gaza hanno circa trenta operatori impegnati nella distribuzione di acqua e cibo alle persone più vulnerabili, nella riparazione dei pozzi bombardati, nella purificazione dell’acqua, nella ricostruzione dei mezzi di produzione per pescatori e agricoltori e delle infrastrutture idriche. È un lavoro pericolosissimo, affrontato con enorme coraggio. Tutti gli operatori sono dimagriti in maniera impressionante – anche 10 o 15 chili – ma continuano a organizzarsi e a ripetere: “Vogliamo vivere qui”. Se volete aiutarci e fare un gesto concreto per la popolazione di Gaza, potete informarvi e donare tramite il nostro sito internet».

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