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Il caso "incurabile" per molti medici risolto a Grosseto, così è ritornata a camminare dopo l'intervento sbagliato

di Matteo Scardigli

	Il dottor Salvatore Chibbaro e Anna Maria Leoni
Il dottor Salvatore Chibbaro e Anna Maria Leoni

Cinque mesi in sedia a rotelle per un’operazione all’ernia del disco. Anna Maria Leoni racconta il suo calvario e la sua guarigione grazie a un medico toscano

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GROSSETO. Una semplice diagnosi: ernia del disco. Poi un calvario durato mesi, infine la rinascita «miracolosa». È la storia di Anna Maria Leoni (64 anni), nata a Roma, già titolare di un bed & breakfast ad Ansedonia e residente a Grosseto; felicemente, oggi ancora di più.

Una storia che nasce l’anno scorso dal dolore tipico della patologia degenerativa che peggiora con l’avanzare dell’età, che si è fatto ormai insopportabile, specialmente per una donna attiva come lei; e che prosegue con la prescrizione ricevuta da un camice bianco della Capitale: qui bisogna operare.

Dall'intervento di routine alla sedia a rotella

«Sono stata indirizzata a Napoli e il 28 maggio mi hanno sottoposta a un intervento che credevo fosse di routine», premette Leoni; che mai avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe successo al suo risveglio.

I chirurghi partenopei le hanno avvitato sulla colonna vertebrale delle placche di metallo: una procedura del tutto ordinaria, di per sé. Svanito l’effetto dell’anestesia, però, il dolore, invece di diminuire, persiste: aumenta. E la donna si ritrova in camera di degenza privata della possibilità di camminare: «Fin da subito dopo l’intervento, praticamente, mi sono ritrovata su una sedia a rotelle».

Che qualcosa sia andato storto è chiaro. Capire cosa, esattamente, richiede tempo; e spese certamente non esigue.

«Dopo l’operazione mi sono rivolta a diversi medici per capire che cosa avevo: in molti hanno definito quello che mi avevano fatto come “macelleria”», aggiunge Leoni, che nel frattempo dà fondo ai risparmi: «Non ho potuto fare a meno di attrezzare casa mia a misura delle mie nuove esigenze». Le cose più semplici, infatti, sono diventate impossibili da svolgere in autonomia.

Nel frattempo arriva la nuova diagnosi: un nome difficile, spondilodiscite, per indicare una condizione spaventosa come l’infezione della colonna vertebrale che interessa il disco e le vertebre adiacenti. Chi avrebbe dovuto curarla ha, se possibile, peggiorato la sua vita. «Un’infezione da batterio da contatto», precisa la donna.

Un caso giudicato inoperabile da molti

Leoni è costretta a letto: dolori lancinanti, la schiena piena di lividi. «Ho girato mezza Italia in cerca di luminari, ma in tanti hanno giudicato il mio caso inoperabile», aggiunge. Altre spese, invano. Poi, come spesso accade nelle storie a lieto fine, la svolta più semplice.

La salvezza a Grosseto

«Rientrata a Grosseto ho chiamato il Cup, che mi ha fatto il nome del professor Salvatore Chibbaro del policlinico Santa Maria alla Scotte di Siena», racconta ancora la donna, determinata a tentare anche questa strada.

La determinazione, del resto, non le manca: lo dimostra la sua attività umanitaria in Siria, dove nel corso di anni aveva creato attività, una scuola e un campo con 478 ospiti: “Il campo di Anna”, che poi aveva lasciato a due amiche musiciste per rientrare infine in Italia.

«Chibbaro si è coordinato con il dottor Matteo Bellini, mi hanno operata con una tecnica che nessuno fino ad allora mi aveva proposto, e il problema si è risolto», spiega Leoni, che da quel giorno ha ritrovato – sebbene con fatica – il sorriso: «Ci ho messo altri cinque mesi ma alla fine sono tornata a camminare: il mio medico grossetano, Francesco Belardinelli, e suo figlio Luca, il mio fisioterapista, ancora oggi non si capacitano di come abbia fatto a recuperare così in fretta».

Il medico: "Procedura mini invasiva"

Chibbaro, al nostro taccuino, non si appunta medaglie sul camice: «Fatta la diagnosi, con un lavoro di équipe multidisciplinare insieme a Bellini abbiamo optato per una procedura mini invasiva. Abbiamo fatto una biopsia in anestesia locale per individuare l’infezione, poi abbiamo inserito uno stimulan nel disco: cristalli di fosfato di calcio imbevuti con una miscela di antibiotici. Una procedura da una mezz’ora (o anche meno) che certamente non facciamo solo noi – precisa – ma alla quale spesso si preferisce un approccio più “aggressivo” in cui si opera per togliere placche e viti, si somministra una terapia antibiotica che ha una durata di alcuni mesi, e infine si fa una seconda operazione per rimettere tutto al suo posto».

Il professore definisce l’esperienza di Leoni come «nomadismo sanitario», un lungo viaggio alla ricerca della guarigione. Lei, invece, più semplicemente la chiama malasanità: «Nella nostra regione abbiamo la fortuna di avere dei medici favolosi: farsi ricoverare altrove decisamente non conviene».


 

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