Lucca, morta per l’ictus non diagnosticato: Asl condannata a risarcire i familiari
La donna con un forte mal di testa fu rimandata a casa senza prescrizioni. Il giorno dopo tornò al pronto soccorso e venne trasferita a Pisa dove arrivò in coma: morì dopo quasi 4 mesi
LUCCA. Si presentò al pronto soccorso con un forte mal di testa. Era il primo gennaio 2016 quando entrò per la prima volta al San Luca in quello che diventerà un calvario ignorato, almeno nella fase iniziale.
La visitarono, sottoponendola anche a una Tac e poi la rimandarono a casa senza alcuna prescrizione. Il giorno dopo la signora si aggravò al punto da avere le convulsioni. Non riusciva a stare in piedi. E nel secondo accesso al pronto soccorso i medici, dopo Tac e risonanza magnetica, disposero l’immediato trasferimento a Cisanello dove la donna arrivò in coma. Operata d’urgenza e ricoverata per mesi, il 19 aprile venne mandata all’ospedale di Barga per iniziare una riabilitazione che si concluse dopo dieci giorni con la morte della paziente.
Dopo una prima ordinanza del Tribunale di Lucca con cui l’Asl nel 2022 era stata condannata a risarcire con 700mila euro marito, fratello e sorelle, la Corte d’Appello, a cui l’Azienda sanitaria si è rivolta, ha ridotto a circa 200mila euro la somma. Nel frattempo l’Asl ha liquidato in corso di causa 436mila euro agli eredi che ora devono restituire la quota eccedente all’importo fissato dai giudici di secondo grado.
Al di là del calcolo del danno da dover risarcire per un errore medico per mancata diagnosi, resta nella sentenza la responsabilità medica di chi il primo gennaio 2016 al San Luca non si accorse dell’ictus che aveva colpito la paziente. Sul punto le consulenze tecniche sono state chiare nel sottolineare che un approccio immediato e corretto avrebbe allungato le speranze di vivere più a lungo della donna. E proprio sulla valutazione dell’aspettativa di vita la Corte d’Appello ha dimezzato il danno iure proprio da perdita anticipata del rapporto parentale.
Nella causa i familiari avevano lamentato la consumazione di un macroscopico errore diagnostico nel non riconoscere, in occasione del primo ricovero, quella lesione che solo dopo poche ore si sarebbe rivelata essere un gravissimo ictus ischemico «così causando un tardivo intervento terapeutico – chirurgico e, di conseguenza, la morte della congiunta».
Le consulenze acquisite agli atti rivelano la negligenza medica in occasione del primo accesso al pronto soccorso.
«Si dà conto dell’oggettiva omessa diagnosi precoce e del conseguente ritardo diagnostico radiologico di circa 12 – 15 ore della trombosi venosa corticale dell’infarto ischemico nascente ad essa correlato» è uno dei passaggi della Ctu che prosegue: «Pare inoltre ragionevole far presente che, se nel primo esame Tac fosse stata rilevata la presenza di una trombosi venosa corticale e di un infarto ischemico nascente, la paziente sarebbe stata sottoposta a tutti gli accertamenti clinici e (neuro) radiologici (TC con MdC e/o RM) del caso per confermarla e precisarne il tipo (superficiale e/o profonda e/o durale) ed il grado di estensione per procedere alle conseguenti terapie in un quadro, come detto, già caratterizzato da un importante impegno occlusivo venoso superficiale e durale e da un iniziale danno parenchimale di tipo infartuale ischemico nascente».
La ritardata diagnosi aveva comportato il rientro della paziente al proprio domicilio senza alcuna terapia. Una situazione che per i consulenti aveva provocato l’estensione del processo trombotico e la conseguente evoluzione del quadro, che ha poi reso necessario il trasferimento in neurochirurgia a Pisa e il successivo trattamento chirurgico. Ancora la consulenza: «È peraltro verosimile che l’adozione di precoci misure terapeutiche avrebbe consentito alla paziente elevate “chances” di sopravvivenza, di difficile quantificazione percentuale, anche in considerazione del coesistente difetto della coagulazione e dell’episodio di embolia polmonare».
