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Omicidio a Livorno, viaggio nel palazzo dell’orrore: «L’aveva già picchiato, Fabrizio aveva paura del figlio»

di Flavio Lombardi
Omicidio a Livorno, viaggio nel palazzo dell’orrore: «L’aveva già picchiato, Fabrizio aveva paura del figlio»

Vicini sotto choc raccontano le passioni di quel ragazzo schivo e le liti a casa: «Di notte costruiva i pesi in cantina col saldatore, gli ho detto di smettere»

03 febbraio 2023
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LIVORNO. La strada è di quelle che devi guardare sulla mappa per capire dove si trovi esattamente. Siamo tra i rioni di Colline e Coteto, corre lungo una lingua d’asfalto di cento metri, presenta tre condomini da una parte (i numeri pari) e altrettanti dall’altra (i dispari) , immersa in una zona dove l’unica attività commerciale nei paraggi è la farmacia comunale numero 7 di via Montanari con la quale fa angolo e dove i Banti non li conoscono. Ed è proprio lei, la farmacia, che ti fa capire che da lì, ci sarai passato più e più volte senza farci troppo caso. Solo palazzi. Si arriva sul posto e già il nome della via mette i brividi. Intitolata a Niccolò Paganini, quello che non ripeteva, quello il quale secondo una fantasiosa e inquietante teoria, si dice fosse un assassino seriale che ricavava le corde degli strumenti che utilizzava, dalle viscere delle sue vittime. Una figura spesso collegata a Satana, sul conto del quale si diceva addirittura avesse stipulato un patto con il diavolo per poter suonare in quel modo. Unico.


Si giunge al civico 6, le cui mura sono testimoni del l’efferato delitto avvenuto nella notte, mentre da un terrazzo di fronte, un rottweiler con aria curiosa osserva in silenzio chi passa. Siamo in presenza di uno dei tanti immobili di residenza pubblica dove la metà degli inquilini hanno “riscattato” l’appartamento diventando proprietari, mentre l’altra metà ancora «paga la pigione» alla società a partecipazione pubblica.

Case popolari, zona tranquilla, palazzetta a quattro piani con un totale di otto campanelli. Due porte per piano. L’indice della mano preme su un pulsante a caso del citofono, mentre un sonnacchioso venticello muove a trastullo, cuffiette e copriscarpe monouso celesti che i carabinieri hanno lasciato lì dopo aver fatto i rilievi. Il portone, in alluminio fumo di Londra, si apre. Si sale al primo piano ed a parlare c’è Michael Berni, 31 anni, che vive lì, con la moglie, da cinque


«Mai avrei pensato che Leonardo potesse commettere un atto del genere. Ho un bar in via del Mare, ad Ardenza. Finito col lavoro, entro in casa e stacco con il resto del mondo. Lo vedevo però spesso uscire con una bici, come quelle che produceva la Carnielli Firenze agli inizi degli anni’60, modello Graziella. Andava a fare un po’di spesa e tornava subito alla base. Non ho mai avuto rapporti con questo giovane, solo il classico buongiorno e buonasera usato come forma di cortesia. È sempre stato schivo e silenzioso, non incoraggiava il prossimo a fare due chiacchiere. Lo vedevo ogni tanto con un altro ragazzo, di colore, qui giù al portone, e sentivo che parlavano di cose di palestra, un suo hobby coltivato anche qui giù in cantina, nella stanzetta collegata all’utenza del loro appartamento».

Si salgono due rampe e la signora Sonia che abita proprio sotto a dove la tragedia si è consumata, spiega. «Stavo dormendo con mio marito, ci siamo svegliati solo in seguito al trambusto successivo all’accadimento. Quando cioè sono arrivate le forze dell’ordine. Ricordo ancora l’episodio della scorsa estate quando Fabrizio (la vittima, ndr) arrivò fino al suo pianerottolo gridando: “Aiuto, aiuto, questo mi ammazza prima o poi. È forte e non posso difendermi”. Lo percosse, lasciandogli vaste ecchimosi e spingendolo alla fine con violenza contro del mobilio».

Padre e figlio che vivono insieme. A fasi intermittenti nel corso degli anni. Prima con la mamma, poi col babbo, poi ancora con la madre e ancora con il padre. «In seguito a quell’episodio, riuscimmo a rintracciare la mamma, che arrivò in bici – riprende Sonia -, consigliandola di riprendere con sè il ragazzo di cui il padre aveva ormai una tremenda paura. Ma lei sembra non in grado di accogliere un familiare. Riuscì tuttavia a calmarlo prima di andarsene. Qui, lei, l’abbiamo vista solo qualche volta e sembra viva con altre persone da qualche parte».

Lisa Chiesa ascolta e ha i brividi. «Era sempre in cantina Leonardo. Alle due del mattino, il primo febbraio, ricordo i rumori, nel totale silenzio, che provenivano da lì. Ho scoperto dopo che si costruiva degli attrezzi per il sollevamento pesi, saldando e battendo col martello. Uno sguardo inquietante, faceva paura, non riuscivi mai a capire cosa pensasse. E quella notte, anche se il suo comportamento sarebbe stato da censurare, sono rimasta in casa preferendo di non dormire rispetto ad un ipotetico rischio di aggressione. Ero sola coi bimbi, mio marito non c’era».

Un uomo malato, con un figlio problematico che ha smesso presto con la scuola ma con la passione per i coltelli e per il culto del fisico anche se non è certo longilineo.

Sente parlare e sale i gradini. È Roberto Rondanina, residente nel palazzo dal’67, ex dipendente all’ufficio tributi del Comune. «Il giovanotto è stato alternativamente con uno o con l’altro genitore. La lite alla quale assistemmo la scorsa estate fu veramente brutta. Di quelle che ti restano dentro per un po’. Uscimmo tutti, credendo che se avessimo chiamato i carabinieri sarebbe stato peggio. Pensammo, evidentemente sbagliando, che si fosse trattato di un episodio isolato, di quelli che solo dopo capisci sarebbe stato meglio immischiarsi. Il ragazzo è fissato col sollevamento pesi, in cantina ci si allenava e ci aggeggiava, dopo averla svuotata per far posto alle sue cose. Era un continuo saldare grazie all’ausilio di un generatore di corrente alimentato a benzina. Più volte gli ho detto di smettere perché mancava di rispetto a un sacco di persone. Si capiva però che non era equilibrato. Ossessionato da qualcosa di grande che evidentemente lo tormentava».

Più di cento chili, sul metro e settantacinque, castano coi capelli lunghi ma che poi aveva deciso di far sparire, radendosi a zero. Come un marine, trascinando un rapporto col padre che non si fatica a presumere problematico. Il ragazzo, dopo aver compiuto il delitto, con la stessa arma ha poi tentato di tagliarsi le vene. Viene in mente Full Metal Jacket quando il soldato uccide il suo sergente maggiore e, col solito fucile, si toglie poi la vita. Un mostro all’improvviso, armato in via Paganini di un pugnale che ha ucciso quello che vedeva come il suo demone. Prima di commettere la violenza suprema: il suicidio. Un tentativo, quest’ultimo, per fortuna, abortito.

Restano quelle tracce ematiche che testimoniano il suo tormento e la voglia di farla finita. Dal pianerottolo, gocce di sangue per tutte le scale, quasi su ogni gradino. Il “percorso” si interrompe, dopo l’uscita dal portone per una trentina di metri. Per riprendere poi senza interrompersi più. Ecco ancora quaranta metri di punti rossi grondati dai polsi. Si arriva alla farmacia. Basta guardare per terra, non occorre essere un cercatore di piste di una riserva indiana per ricostruire tutto. Cammina lungo i condomini di via Montanari ed arriva ad attraversare la strada, passando lungo il piccolo prato che a sinistra ha la recinzione dell’asilo e a destra la baracchina di frutta e verdura. È in via degli Etruschi e percorre il tragitto fino all’attraversamento pedonale in prossimità della rotatoria. Sale sul marciapiede opposto, e attraversa ancora una volta sulle strisce all’inizio di via Torino. Il sangue è ancora fresco, qualche ora non è riuscita a cancellare l’orrore. D’incanto l’asfalto torna solo grigio. Leonardo ha tagliato sul prato del parco. Dirigendo verso una panchina e chiamando un amico. «Ho ucciso mio padre, venite a prendermi».

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